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Dagli Usa all’Afghanistan la giornata per i diritti delle donne ha ancora senso

Alcuni passi avanti sono stati fatti nell’ultimo anno in Paesi, che non hanno una tradizione di parità: dall Sierra Leone al Giappone

di Monica D'Ascenzo

(AFP)

5' di lettura

Oltre 383 milioni di donne e ragazze vivono in condizioni di estrema povertà, come se l’intera popolazione degli Stati Uniti vivesse con meno di 1,90 dollari al giorno. Oltre 1,2 miliardi di donne e ragazze vivono in luoghi in cui l’accesso sicuro all’aborto è limitato. Al mondo 12 milioni di bambine e ragazze vengono date in sposa prima dei 18 anni. Una donna o una ragazza viene uccisa da qualcuno della sua stessa famiglia ogni 11 minuti. Circa 44 milioni di donne sono state obbligate a lasciare la propria casa nell’ultimo anno a causa di cambiamenti climatici, guerre, conflitti o violazioni dei diritti umani. Sono 130 milioni le ragazze che non possono frequentare una scuola.

Per non parlare di tutte le leggi discriminatorie: viene stimato che saranno necessari 286 anni per avere quadri giuridici paritari. Circa 2,4 miliardi di donne in età lavorativa non hanno pari opportunità economiche e 178 Paesi mantengono barriere legali che impediscono la loro piena partecipazione economica, secondo la Banca mondiale. E ancora: a livello globale le donne si fanno carico di 512 miliardi di ore di assistenza all’infanzia non retribuita. D’altra parte le donne guadagnano solo 77 centesimi per ogni dollaro guadagnato dagli uomini, quindi è normale che stiano a casa loro piuttosto che i mariti e i compagni. In ufficio, poi, solo un manager su tre è una donna. E se si guarda alla politica, le donne detengono solo il 26,4% dei seggi parlamentari, in 23 Paesi addirittura meno del 10 per cento.

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Alla domanda se ha ancora senso la Giornata internazionale dei diritti della donna che si celebra l’8 marzo, rispondono questi numeri. Dati con troppi zeri perché si possa concepire la portata di una disuguaglianza globale. La più grande e persistente al mondo.

La mappa della disparità

Il cammino verso la conquista di una parità di diritti per altro non è affatto lineare. Quando le Nazioni Unite stimano in 300 anni il lasso di tempo necessario per raggiungere condizioni eque fra i generi, lo fanno considerando uno sviluppo costante e a un passo determinato. La storia, però, procede in modo discontinuo e spesso a ondate, che possono portare a un’accelerazione delle conquiste, ma anche a passi indietro o risacche.

È sufficiente dare uno sguardo agli ultimi due anni.

In Afghanistan , i talebani, tornati al potere hanno vietato alle donne di frequentare la scuola secondaria e l’università, di lavorare, di uscire senza uomini, di acquistare una Sim per cellulare, di collaborare con le Ong, di essere curate da medici, di fare sport, in altre parole hanno vietato loro di “esistere”.

Nel contempo in Iran , le donne e le ragazze sono l’anima di una rivolta nazionale, nata per chiedere la fine dell’obbligo di indossare l’hijab e diventata un dissenso diffuso contro la stessa Repubblica islamica per ottenere uno stato di diritto al grido: Women, life, freedom. E sono proprio le giovani iraniane a essere le prime vittime di una repressione feroce e implacabile fatta anche di torture, stupri, detenzioni e morte.

Dal Medio Oriente agli Stati Uniti: giugno 2022 la Corte Suprema ha votato per ribaltare la sentenza storica conosciuta come Roe v. Wade, con la quale, nel 1973, il medesimo organo di giustizia, aveva riconosciuto il diritto a interrompere la gravidanza. Da allora, almeno 13 Stati hanno vietato l’aborto, il che significa che le statunitensi, ora, hanno meno tutele rispetto alle donne dell’Arabia Saudita, ad esempio, dove l’interruzione volontaria di gravidanza è lecita se c’è rischio fisico e mentale per la donna.

Gli Stati Uniti sono in buona compagnia considerato che al mondo sono ancora 26 i Paesi che vietano l’aborto e 39 quelli in cui è lecito solo per salvare la vita alla donna, per un totale di 450 milioni di donne (27%). E non mancano anche in Italia proposte di legge che vanno nella direzione di una lettura più restrittiva del diritto all’aborto: con la nuova legislatura sono già quattro quelle depositate. A dimostrazione che i diritti non sono acquisiti per sempre e che nel dipanarsi della Storia non sono esclusi ritorni al passato.

Le ultime conquiste

Esiste, però, anche un’altra faccia della medaglia fatta di conquiste e affermazioni positive, come ad esempio la depenalizzazione dell’aborto durante le prime 24 settimane di gravidanza in Colombia. La mossa storica si aggiunge a una recente serie di vittorie legali per i diritti riproduttivi in ​​America Latina, incluse alcune sentenze in Messico e Argentina, e all’approvazione in Cile del disegno di legge per la depenalizzazione dell’Ivg fino alla 14esima settimana di gestazione.

In Asia intanto Il più alto organo giurisdizionale dellIndia ha ribaltato la vecchia legge in materia di interruzione di gravidanza nell’autunno scorso, permettendo così alle nubili di ricorrere all’aborto in modo legale, ma la sentenza è anche un piccolo manifesto in cui si parla di salute riproduttiva più ad ampio respiro.

Nell’ultimo anno, inoltre, diverse le notizie “epocali” anche se solo a livello locale. Nel settembre scorso con quasi il 67% dei voti favorevoli, Cuba ha detto “Sì” alla riforma del Codice della Famiglia sottoposta a referendum, che introduce nel Paese matrimoni e adozioni gay e la maternità surrogata.

Dall’altra parte del globo qualche segnale “rivoluzionario” si è registrato anche in Giappone , classificato al 116° posto su 146 Paesi nell’annuale Global Gender Gap Report pubblicato dal World Economic Forum. In base a una norma in vigore dal 1896, una donna era obbligata, entro 300 giorni dal divorzio, a indicare l’ex marito come padre del proprio figlio e allo stesso tempo le era vietato di risposarsi prima che fossero trascorsi 100 giorni dal divorzio. Ora una nuova legge permette alle donne di risposarsi e la paternità viene assegnata al coniuge della madre al momento del parto.

In Sierra Leone è stata, invece, approvato quella che è stata definita una legge “rivoluzionaria” per migliorare i diritti delle donne: è previsto che il 30% dei posti di lavoro pubblici e privati ​​debba essere riservato alle donne. La motivazione è di carattere economico, dal momento che il Paese ha bisogno che l’occupazione salga al 52%, ma il risultato è politico.

E l’Europa?

In Europa è la Spagna il Paese più all’avanguardia sul fronte dei diritti in tema di diversity. A metà febbraio è arrivato il via libera definitivo del Parlamento spagnolo alla cosiddetta “legge trans” e a una riforma della normativa sull’aborto. Il Paese ha anche aperto la strada al congedo mestruale: tre giorni al mese di malattia retribuita dallo Stato per le donne che hanno mestruazioni dolorose e invalidanti. La misura fa parte della più complessa riforma sulla salute sessuale e riproduttiva e prevede anche la distribuzione gratuita di prodotti per l’igiene mestruale in scuole, carceri, centri femminili, centri civici, centri sociali o enti pubblici.

E in Italia? Molte le questioni aperte. Diverse le misure messe in atto negli anni, ma mai in un quadro complessivo di visione strategica di un Paese, che può crescere ed evolvere solo se metà della popolazione non viene lasciata indietro come succede ancora oggi a guardare i dati: dall’occupazione all’opportunità di fare carriera, dai carichi dei lavori di cura all’accesso al credito per fare impresa, dal gender pay gap alla violenza contro le donne. Tutti banchi di prova per il nuovo governo.

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