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Dal lockdown riprogettare gli interventi per la Cultura

Riforme strutturali per contrastare l’attuale modello a elevata precarietà: riequilibrio territoriale, nuovo rapporto tra Pa e privati, disciplina del lavoro e formazione

di Daniele Donati*

Museo Egizio di Torino (Ansa)

5' di lettura

Gli interventi destinati dal Governo al settore Cultura nel Decreto “Cura Italia” pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 17 marzo scorso rispondono a molte delle esigenze sollevate nei diversi appelli dagli operatori del settore.
Come già scritto nell’articolo Riuscirà il Decreto Cura Italia a salvare il settore culturale? del 20 marzo scorso in queste pagine, il decreto estende la cassa integrazione in deroga ai lavoratori occupati in quest'ambito o operanti in organizzazioni del terzo settore; sospende i termini per i versamenti fiscali e dei contributi previdenziali e assistenziali per numerose categorie (gestori di musei, biblioteche, archivi, luoghi e monumenti storici, nonché aree parte del patrimonio naturale); concede il rimborso con voucher di biglietti eventualmente già erogati per spettacoli teatrali e cinematografici, musei e altri luoghi della cultura; riconosce un'indennità di 600 euro ai professionisti non iscritti ad altre forme previdenziali obbligatorie e ai lavoratori dello spettacolo; rinvia l'approvazione dei bilanci sociali e, infine, istituisce un Fondo emergenze spettacolo, cinema e audiovisivo al fine di sostenere i relativi comparti e articolato in due sezioni, una di parte corrente e l'altra in conto capitale, per una dotazione complessiva di 130 milioni di euro per l'anno 2020, di cui un decreto del Ministro per i beni e le attività culturali e per il turismo , da adottare entro 30 giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto, stabilirà le modalità di ripartizione e assegnazione ai possibili destinatari tra cui rientrano gli artisti, gli autori, gli interpreti e gli esecutori.

Obiettivi e riforme
Si tratta di misure importanti che, nello spirito generale di questo provvedimento, mirano a contrastare il drammatico calo di entrate e, quindi, di disponibilità finanziaria dei diversi operatori del settore, pensate per alleviare i danni arrecati dalla fase dell'emergenza e le relative chiusure di questi giorni.
Alleviata in tal modo – e pur non senza critiche - una ferita così profonda che nessuno può pensare sia sanabile almeno in tempi brevi, l'impressione è che si debba iniziare a ragionare di interventi strutturali, di cambiamenti permanenti e costitutivi in un ambito che rischia di essere tra gli ultimi a ripartire e, che quindi più di ogni altro, necessità di una prospettiva ben chiara.
Muovendo oltre l'attuale emergenza economica, ma operando fin d'ora in modo sistemico e non occasionale, si deve quindi discutere prima della strategia da metter in atto per transitare fuori da questa condizione di immobilità forzata, e poi delle soluzioni, delle riforme necessarie a ripartire una volta che saremo arrivati sull'altra sponda, fuori dal contagio.
Questo, per chi governa o per chi rappresenta le realtà del settore, è senza dubbio il nodo più complesso da sciogliere, specie perché veniamo da una fase priva di riflessione sistemica, a qualsiasi livello e da qualunque parte. Eppure resta evidente che non c'è rischio peggiore di un ritorno a un passato che ci ha portato alla condizione attuale e, in ragione di questo terribile stress-test, ha mostrato tutte le debolezze di un modello culturale ad alta precarietà (e qui includo davvero tutti, dai complessi museali, bibliotecarie e archivistici alle filiere dello spettacolo dal vivo e dell'audiovisivo), che viveva nell'illusione di una possibile sopravvivenza inerziale nell'equilibrio tra mercato e finanziamenti pubblici, di un pubblico di riferimento stabile e fedele, di un turismo comunque garantito in crescita. Tutte condizioni che questa prova inattesa ha smentito clamorosamente.

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Riprogettazione delle relazioni tra Pa e privati
Per provare a immaginare qualche linea di azione credo si debba partire proprio da una riprogettazione della relazione, nelle politiche culturali, tra amministrazioni pubbliche (tutte, dal Ministero agli enti territoriali) e privati (di ogni genere, profit e non profit). Una relazione da sempre peculiare, di “neutralità attiva” delle prime e di varia, incerta articolazione dei secondi. Si devono quindi ripensare la linea di demarcazione e le forme di collaborazione tra le parti, riconoscendo decisamente alle istituzioni politiche, e pur in forme rinnovate, le funzioni di promozione, diffusione e assistenza anche tecnica alla creatività (finora svolto in modo rapsodico). A questo riguardo, in particolare, non si può pensare che rimangano immutate le logiche di assegnazione del FUS (peraltro in odore di revisione già prima dell'emergenza), le quali dovranno puntare sia a garantire un sostegno organico e pluriennale alle realtà più significative, sia a favorire la nascita di nuove imprese innovative. Anche il Fondo, in altri termini, può diventare uno strumento finanziario efficace e non di mero mantenimento dell'esistente, ma piuttosto di incentivazione all'economia fondata sulla creatività in un'accezione rivista, più legata alle persone e alle idee.
O, ancora, non si può più rinviare una fortissima azione di riequilibrio territoriale tra le diverse aree di un Paese che conosce livelli diversissimi di offerta, intervenendo anche sui distinti ruoli dello Stato, delle regioni e degli enti locali.
Allo stesso tempo, si deve finalmente assegnare alle realtà pubbliche di conservazione e fruizione del patrimonio culturale, senza più esitazioni, una decisa autonomia, riportando l'attenzione su una valorizzazione che riporti l'attenzione sulle relative forme di gestione, da lasciar differenziare in ragione di una loro piena efficienza.

Dal privato
Sembra, però, almeno altrettanto rilevante chiedere anche al privato di muovere verso quella riforma profonda fino a oggi reclamata e anche tentata solo per l'amministrazione. È di tutta evidenza, infatti, come anche su questo fronte vi siano da ripensare le forme dell'organizzazione sia delle aziende che degli organismi del terzo settore, puntando a standard di eccellenza e, ancora, riequilibrando il peso dei segmenti della produzione, distribuzione e offerta al pubblico nelle diverse filiere.
Ciò comporta, come passaggio essenziale, la tanto attesa disciplina del lavoro (pur se stagionale, od occasionale), che significativamente era apparso e poi scomparso dal testo delle proposte di Codice dello Spettacolo, e che oggi deve estendersi, senza fraintendimenti, a serie garanzie di sicurezza e continuità dell'occupazione.
E ancora, una fortissima focalizzazione sulla formazione degli operatori di un settore che vede professionalità rilevantissime o rimanere colpevolmente astratte (si pensi ai cosiddetti manager culturali) o scivolare progressivamente verso l'oblio per la mancata definizione delle relative figure professionali, e la conseguente assenza di percorsi di scolastici o universitari consolidati.
Né si deve pensare di tornare indietro sulla diffusione, così ricca in queste settimane, di prodotti digitali e in rete, che dopo la riapertura del Paese potranno andare a integrare e stimolare l'esperienza del contatto diretto col pubblico, se non saranno progettate e realizzate in forme obsolete o poco attrattive, ma come patrimonio aggiuntivo, ulteriore.
Di fatto, queste sono le settimane, o forse i giorni utili in cui tutti gli attori coinvolti devono iniziare questa profonda opera di (ri)progettazione, traducendo in progresso l'arretramento causato dal lockdown. In quella che per molti versi, di fronte all'ipotesi concreta di una contrazione fatale, appare essere l'ultima occasione possibile.

*Professore (associato) di Diritto dei Beni e delle Attività Culturali presso l'Università Alma Mater di Bologna ed esperto nazionale per il progetto ANCI/Funzione pubblica Metropoli Strategiche

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