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Dal tackle scivolato alla rovesciata, quando il calciatore è punibile per lesioni

Come per l’attività medico chirurgica anche per lo sport agonistico o amatoriale valgono le regole generali di valutazione delle condotte lesive. I giudici abbandonano il principio del «rischio consentito»

di Patrizia Maciocchi

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3' di lettura

Non può essere condannato per lesioni l’attaccante che, nel campionato amatoriale, entra in scivolata per tenere il pallone in gioco, ma colpisce la gamba dell’avversario. Il reato non c’è se non c’è dolo e l’azione può essere inquadrata nel contesto di gioco, visto che l’obiettivo era di evitare che il pallone finisse oltre la linea di fondo. La Cassazione (sentenza 8606) annulla così la condanna per il brutto fallo ai danni del difensore, letto dalla Corte d’appello come una eccessiva foga agonistica che aveva esposto la parte lesa al rischio di conseguenze lesive non necessarie, visto ormai la palla non era più in suo possesso.

Il rischio consentito

Diverso il parere della Suprema corte che, con l’occasione, abbandona il principio del “rischio consentito”, in genere applicato alle manifestazioni sportive agonistiche e non, per adottare criteri generali nella valutazione di eventuali reati commessi sul campo.
Secondo il criterio del rischio consentito, elaborato dalla giurisprudenza per le gare agonistiche di maggior rilievo che implichino un uso necessario o anche solo eventuale della forza fisica.
Dal pugilato alla pallanuoto, dal calcio alla pallacanestro, il rischio sarebbe consentito dall’ordinamento purchè controbilanciato da adeguate misure di prevenzione, intese sia come regole precauzionali sia come obblighi di cura e trattamento a carico delle società sportive.
Un rischio accettato dunque da tutte le parti in causa, dal quale restano escluse solo le azioni estranee alla competizione. Dal criterio non codificato la Cassazione prende però le distanze. I giudici lo considerano, infatti, non soddisfacente per individuare in modo apprezzabile il discrimine tra lecito e illecito, in caso di danni provocati dagli atleti, perchè per valutare una condotta diligente rimanda al comportamento di un agente tanto ideale, quanto irrealistico.

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Il modello medico chirurgico

La Suprema corte preferisce la via delle regole generali e il modello reale medico chirurgico, che ha delle analogie, pur con i dovuti distinguo, con l’attività sportiva, per quanto riguarda gli eventi lesivi. Nella verifica della «responsabilità colposa per i reati commessi dal sanitario, non assume particolare rilievo il profilo della ritenuta scriminante, ponendosi piuttosto il problema di stabilire se l’intervento medico dannoso sia stato rispettoso o meno delle regole cautelari che caratterizzano l’ars medica nel caso concreto».

Allo stesso modo nello sport bisogna stabilire se il fatto dannoso, commesso durante un incontro, sia conseguenza di un’azione dolosa o colposa penalmente rilevante «in quanto commessa con volontà lesiva o in violazione di una regola cautelare». Per fare un esempio pratico i giudici restano sui campi di calcio e citano la classica “rovesciata” fatta per mandare il pallone verso la porta avversaria. Può capitare che il giocatore colpisca oltre alla palla anche la testa dell’avversario, che è consapevole del rischio, procurandogli anche gravi lesioni, senza che questa azione non eccentrica di gioco, rientri nell’ambito penale. Diverso se un calciatore viene colpito al bacino mentre ha la palla fra i piedi, tradendo così la sua aspettativa a non subire lesioni in una zona del corpo lontano dal pallone. In questo caso siamo - spiga la Cassazione - di fronte ad una condotta negligente e inutile rispetto al gioco.

Assenza di dolo e finalità agonostica

Per finire la Suprema corte ricorda che i criteri vanno applicati più o meno rigidamente a seconda delle circostanze. Le valutazioni della colpa sportiva saranno tarate anche sul contesto in cui si svolge l’attività: professionale o dilettantistico, allenamento o competizione.

Nel caso esaminato la Corte d’Appello aveva condannato anche per la foga agonistica eccessiva, visto il contesto amatoriale. La motivazione non risolve però il nodo centrale, perché non chiarisce se la condotta era conforme alle regole del gioco e a questo finalizzata. Ad avviso della Suprema corte la risposta è sì. La scivolata non era inutile, perché la palla era diventata irraggiungibile proprio grazie all’azione ostruttiva del difensore che l’attaccante, con il suo tackle scivolato, voleva superare.

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