Dall’Iri che fu al capitalismo globale
di Paolo Bricco
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Oggi indossa un vestito blu, cravatta nera e camicia azzurra di ordinanza. «Ho sempre pensato - spiega - che il pubblico fosse il privato di tutti. Me lo hanno insegnato in fabbrica i miei maestri dell’Iri. E, quando negli anni Novanta ci sono state le privatizzazioni e mi hanno affidato quel che restava di Ansaldo Energia, ho lavorato con la stessa dedizione e lo stesso spirito imprenditoriale che mi aveva trasmesso, da ragazzo, Giovanni Gambardella alla Nira, la società che si occupava di nucleare».
Giuseppe Zampini, trapiantato a Genova nel 1971 dopo la laurea in ingegneria nucleare all’Università di Pisa, appartiene alla scuola dell’Iri più manifatturiera e meno vergognosamente compromessa con i partiti decadenti della Prima Repubblica, più prossima alla frontiera tecnologica internazionale e meno segnata dai rapporti incestuosi e parassitari con il sindacato.
Nei capannoni di Genova, in un 2 giugno segnato da una attività di manutenzione tipica dei giorni di sospensione del lavoro, puoi vedere l’evoluzione di lungo periodo dell’altra faccia dello Stato Imprenditore depredato negli anni Ottanta, il seme che è stato salvato e da cui ha avuto origine uno dei rari pezzi dell’Italia industriale che ha una fisionomia tecnologica solida e internazionalizzata, per cui la voce R&S sul bilancio non è una bestemmia e in cui i brevetti sono una priorità strategica e culturale, prima che una opzione industriale e commerciale. Una contraddizione totale con il nostro attuale modello di sviluppo, fatto in prevalenza di piccole aziende inserite per lo più nelle parti basse delle Global Value Chains e poco dedite all’innovazione formalizzata.
Racconta Zampini, che saluta gli operai e i tecnici impegnati nella ripulitura dei macchinari e del capannone con la familiarità che un capoazienda ha soltanto se ha respirato a lungo l’odore degli stabilimenti: «Nel 1998, quando sono stato nominato direttore generale, ci davano tutti per morti». Morti? Morti e sepolti. Nessuno lo dubitava. In quell’esercizio, i ricavi erano pari a 2.200 miliardi di lire. Le perdite nette ammontavano a 1.016 miliardi di lire. I debiti valevano 560 miliardi di lire. Gli addetti erano 8mila. Diciotto anni dopo, nel 2016, i ricavi consolidati sono stati pari a 1,253 miliardi euro, con un Ebit di 129,4 milioni e un utile netto di 60,4 milioni. Il patrimonio netto è oggi di 598 milioni di euro.
La ristrutturazione e lo sviluppo sono stati compiuti facendo esplodere le forze – manageriali, industriali e tecnologiche – interne al perimetro di Ansaldo Energia. Lo storico azionista post-pubblico, la Finmeccanica guidata da Pier Francesco Guarguaglini e concentrata più sul militare che sul civile, in Ansaldo Energia ha messo poco: secondo l’ufficio studi di Mediobanca, gli aumenti di capitale sono stati pari nel 1998 a 439 milioni di euro, nel 1999 a 198 milioni e nel 2000 a 165 milioni; poi nulla, se non un micro aumento di capitale da 88 milioni di euro nel 2012, nemmeno a pagamento ma con un concambio di azioni per una fusione inversa con la controllante Ansaldo Energia Holding. Da Finmeccanica, Ansaldo Energia qualcosa ha ricevuto: l’attuale posizione finanziaria netta negativa per 252,6 milioni di euro, per quanto in miglioramento rispetto ai -373,2 milioni del 2015, risale al 2012, quando la controllante scelse di scaricare - contestualmente all’entrata del fondo americano First Reserve - 600 milioni di euro di debiti propri sulla controllata.
In questi quasi vent’anni, Ansaldo Energia ha fatto dunque molto – se non tutto - da sé. E, nel costruire un percorso di uscita da una condizione prefallimentare, ha assunto un profilo di indipendenza dalla politica. «Nel 2001 – ricorda Zampini – fui nominato amministratore delegato. Un personaggio di Forza Italia, non le dirò mai il nome, venne da me: “Ti indichiamo noi il nome del direttore generale”. Io rifiutai e mantenni le due cariche. Quella era una posizione che faceva gola: la nostra rete di fornitura vale 600 milioni di euro all’anno, di cui 300 milioni in Italia e 120 milioni in Liguria».
Nell’attuale caso di Ansaldo Energia, un rapporto non subordinato alla politica non è l’unica diversità rispetto alla prevalenza dell’ultima esperienza storica dell’Iri, in cui i manager erano i valletti dei segretari dei segretari dei segretari del Pentapartito e del Pci. Ci sono altre due differenze. Prima di tutto le relazioni industriali: buone, anche in virtù della opposizione del sindacato all’idea della vendita accarezzata dalla Finmeccanica di Giuseppe Orsi e di Alessandro Pansa, ma non corrive. Spiega Zampini, mentre mi indica la più grande turbina a gas europea, la GT36, soprannominata Montebianco per le dimensioni ciclopiche: «Non ho mai tollerato le manifestazioni sindacali pittoresche e caotiche, tipo i cortei interni. E, quando nel 2015 i lavoratori hanno bocciato il contratto aziendale con un referendum, non mi sono di certo seduto di nuovo a trattare». Nel rapporto con la comunità della fabbrica, rientra anche il saper fare umano di chi ha molta esperienza e altrettanta astuzia naturale: «La fabbrica è la fabbrica. Appesi ai muri c’erano calendari con le donne scollacciate. Io non riuscivo a farli togliere. Tarcisio Bertone, quando era arcivescovo di Genova e veniva in visita, faceva finta di niente, guardava davanti a sé e camminava veloce. Un giorno ho detto che sarebbe arrivata una delegazione di arabi e che, per quelle immagini di nudo, rischiavamo di perdere una commessa. Hanno tolto tutti i calendari». Il terzo elemento della mutazione genetica rispetto alla deriva dell’Iri è l’alternativa strategica ricavi-margini. «Allora – ricorda Zampini – il baricentro erano i ricavi. Ricavi, ricavi, ricavi. Io, invece, anche perché la situazione iniziale era prefallimentare, ho scelto di concentrarmi sui margini».
Sotto il profilo strategico, la leva adoperata da Zampini è costituita dai brevetti. Nel 2001 Zampini decide di chiudere le licenze di Alstom. Nel 2005 fa lo stesso con Siemens. Nei dieci anni precedenti al 2005, Ansaldo Energia aveva depositato 15 brevetti. Dopo il 2005, in tre anni ne ha depositati 271. Nel 2016, il patrimonio di Ansaldo Energia è salito a 450 brevetti. Nel corso di quell’anno, ha presentato allo European Patent Office di Monaco 50 domande: il primo gruppo italiano. L’anno scorso Ansaldo Energia ha acquisito le turbine a gas di Alstom, cedute per ragioni di antitrust da General Electric: gli addetti da 3.505 sono diventati 4.254. Ma, soprattutto, l’operazione Alstom ha garantito un salto di scala nel patrimonio tecnologico: ora i brevetti sono aumentati a 7mila. «Il mutamento di natura è avvenuto quindici anni fa – sottolinea Zampini - la licenza dei brevetti degli altri ti garantisce un finto senso di tranquillità e uccide la tua fantasia. Oggi abbiamo soltanto tecnologie proprietarie. E, quando l’Unione europea ha costretto General Electric a cedere le grandi turbine di Alstom, Bruxelles ha verificato il nostro livello qualitativo. Abbiamo mostrato di essere in tutto all’altezza». Gli investimenti in R&S – funzione strategica con 440 ricercatori guidati fra Italia e Svizzera da Daniela Gentile, una ingegnere già responsabile degli acquisti e dei progetti – sono pari al 10% del fatturato. «Per rilassarmi – dice Zampini, mentre ci spostiamo in macchina, dalla collina al mare, verso il nuovo stabilimento di Ansaldo Energia – il venerdì pomeriggio incontro i ragazzi della Ricerca e Sviluppo».
Siamo arrivati nel nuovo capannone, 10mila metri quadrati ceduti dall’Ilva. Questo impianto è necessario per avere uno sbocco diretto sul porto e per spedire via mare le turbine più grandi. Verrà inaugurato venerdì 16 giugno a mezzogiorno, alla presenza di Han Zheng, segretario del Partito Comunista Cinese della municipalità di Shanghai. Finalmente, dopo una mattinata di factory tour che mette alla prova ogni virtù podistica, arriviamo al ristorante per il pranzo. Siamo al ristorante Pescato, nella Marina di Genova, dietro all’aeroporto, di fronte al quartiere di Sestri Ponente e allo stabilimento di Fincantieri. Io prendo un piatto di calamari e una insalata di pomodori di San Marzano, più acqua minerale gassata. Zampini, invece, sceglie una porzione abbondante di straccetti ai gamberetti di Santa Margherita e beve prosecco. Sorride di fronte alla luce di Genova: «Qui è molto bello. Da montanaro, mi sono subito trovato bene in questa città di persone riservate e schive».
Nel fresco di un inizio giugno bagnato dalle piogge, a tavola Zampini parla volentieri della componente geo-strategica, connaturata a un gruppo che opera nelle alte tecnologie, con oltre un miliardo di euro di fatturato e più del 90% dei ricavi da export: «Siamo in Iran dal 1998. E in Cina fatturiamo 100 milioni di euro». La questione cinese è fondamentale. Oggi l’azionariato dell’impresa è composto al 45% da Cdp Equity, al 15% da Leonardo Finmeccanica, che nei prossimi mesi cederà a Cdp Equity, e al 40% da Shanghai Electric. «La prima volta che sono venuti i cinesi era il 2008 – ricorda Zampini – e volevano acquisire il 100% del capitale. E ho detto di no. Lo stesso nel 2011. E ho ridetto di no. Nel 2013, mi hanno richiesto che cosa ne pensassi. E io ho detto: “Ma perché non prendete il 40% e, allo stesso tempo, non mi aprite il mercato cinese?”».
Nell’Italia segnata da una marginalizzazione crescente e da una attitudine strategica gregaria, può capitare che un uomo venuto dall’industria pubblica, indifferente ai vizi di quest’ultima e approdato sui mercati internazionali del capitalismo più duro e selvaggio scelga il se, il quando e il come del suo azionista di riferimento. Davvero non male, come ribaltamento del paradigma.
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