Dalla sfiducia alla leggenda: 40 anni fa il trionfo degli azzurri di Bearzot, campioni del mondo
Nella calda estate del 1982 tutta l’Italia “va nel pallone” per trepidare ed esultare con gli 11 eroi guidati dal ct friulano. Come se questa vittoria fosse l’inizio di una rinascita e la fine di un incubo
di Dario Ceccarelli
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Anche in quei giorni era molto caldo. Un caldo pesante, col il sole a martello. Così caldo e umido che al primo concerto dei Rolling Stones al comunale di Torino, quello dell’11 luglio cominciato alle 15 per permettere a tutti di seguire in tv alle 20 la finale al Bernabeu con la Germania, fu necessario inaffiare tutto il pubblico con gli idranti.
“Ancora! Ancora!” gridavano i fan in delirio, mentre Mike Jagger, con la maglia di Paolo Rossi, si lanciò in una spericolata profezia (“Vincerete 3-1”) che incredibilmente si rivelò esatta. Anche gli Stones, dopo un periodo di sesso, droga e poco rock&roll, stavano risorgendo dagli abissi. Risorgeva anche l’Italia di Enzo Bearzot, sbertucciata dai giornalisti come “l’armata Brancazot", nella prima deludente fase dei Mondiali a Vigo.
Ma quella sera di 40 anni fa la canicola non faceva notizia. Era solo un elemento di cronaca ordinaria derubricata a folclore. Che si sopportava con l’umana rassegnazione di chi sa che poi andrà in ferie. Erano anni difficili, non ci si faceva mancare niente (mafia, terrorismo, criminalità, licenziamenti e scioperi selvaggi), ma non c’erano ancora "Caronte" e “Annibale” a ricordarci, coi loro artigli bollenti che sfregiano i ghiacciai, il rapido avanzare di una apocalisse climatica.
Si sudava con allegria, insomma. E poi ci si buttava nelle fontane come fecero milioni di italiani, quando all’81’ al terzo gol di Altobelli, Sandro Pertini si mise a gridare “Non ci prendono più… Non ci prendono più…”. In tribuna d’onore, lo stralunato re Juan Carlos, con il cancelliere tedesco Elmuth Schmidt, sorrideva imbarazzato. Il Bernabeu era tutto tricolore, mentre in Italia esplodeva la festa. Una festa travolgente. Pur avendo già due titoli mondiali alle spalle (1934-1938), e il titolo europeo nel 1968, tutta l’Italia “va nel pallone” come se questa vittoria fosse l’inizio di una rinascita e la fine di un incubo. Vanno tutti in strada: ragazzi, donne, intere famiglie, operai e professori. A Roma come a Milano, a Genova come a Napoli. Non c’è Nord e non c’è Sud. Tutti uguali, tutti uniti, tutti rauchi dalla felicità. Si parlo solo della Nazionale.
Anche i giornali più paludati “aprono” la prima pagina con l’impresa degli azzurri. Quel triplice “campioni del Mondo” ripetuto da Nando Martellini, telecronista di solito pacato, diventa lo slogan di un Paese che, dopo tante tristezze, può lasciarsi andare a una gioia quasi infantile, improponibile in un altro contesto. Gli anni di piombo, la tragedia di Moro e la mafia (che pure tornerà a colpire il 3 settembre uccidendo a Palermo il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa con la moglie e un agente di scorta), in quei giorni vengono cancellati in nome del diritto alla spensieratezza, una tregua dai cattivi pensieri.
Editorialisti, intellettuali, buoni e cattivi politici, non parlano d’altro. Una sbornia collettiva, un'onda anomala cui è impossibile resistere. Anche l’anno scorso, l’11 luglio 2021, quando la nazionale di Mancini ha vinto l’Europeo a Londra, si sono viste scene di analoga euforia. Un deja vù, però. Un altro giro di giostra meno stordente dell'originale. Presto consumatosi, con l’eliminazione dagli azzurri dai Mondiali, in un precoce autunno di nuovo scontento.
Anche 40 anni fa, prima di andare tutti nel pallone, c’erano molti mugugni sulla Nazionale finita a Vigo, sull’oceano atlantico, in un girone non irresistibile (Polonia, Perù e Camerun). Riusciamo a passare il turno dopo tre pareggi uno più scialbo dell’altro. Ci salva solo il fatto che, rispetto al Camerun, abbiamo una miglior differenza reti. Alla fine difendiamo il pareggio con una melina vergognosa. Siamo vuoti, senza nerbo. Paolo Rossi, tanto sostenuto da Bearzot dopo la squalifica per il calcio scommesse, è un fantasma impalpabile. Pallido ed esangue, vicino ai colossi camerunensi sembra un bambino malnutrito. La critica è feroce. Bearzot viene dipinto come un “minuns habens che prima di diventare cittì trascorreva le giornate al caffè che dà sulla piazza di Ajello del Friuli…”. Non gli si perdona di difendere Rossi: “È una bestemmia mandarlo in campo. Un giocatore così lo si spedisce in montagna…”.
I giornalisti sono feroci: accusano la Federazione d’aver promesso agli azzurri 70 milioni a testa solo per la qualificazione alla seconda fase. Perfino Il presidente Sordillo ringhia: “Se la nazionale è questa, meglio andare a casa…”. Dino Zoff viene descritto come “un vecchio bollito e cecato”.
Non manca il gossip, velenosissimo, su una presunta liaison sentimentale tra Rossi e Cabrini. “Si è ufficialmente deciso che Pablito sia l’uomo e Cabrini la muchacha” scrive un collega del Giorno. E la goccia che fa traboccare il vaso. Gli azzurri vanno in silenzio stampa. Solo Dino Zoff, il capitano, parlerà per tutti. Come dire che non parlerà più nessuno. Zoff è già una sfinge di suo, figuriamoci se deve parlare per gli altri.
Sembra tutto finito. Affrontare prima l’Argentina di Maradona e poi il Brasile di Zico sembra una impresa impossibile. Una condanna senza appello. Invece, per magia, il rospo diventa un bellissimo principe azzurro. Il miracolo avviene nel ribollente catino del Sarria. Contro un’Argentina che ricalca quella del ’78, a parte gli innesti di Diaz e del fenomeno Maradona, poi marcato col guinzaglio corto da Gentile. Sembriamo spacciati. C’è ancora Pablito, fortissimamente voluto da Bearzot. Gli argentini vogliono sbranarci, ma gli azzurri nel primo tempo tengono alla grande. Nella ripresa prima Tardelli e poi Cabrini battono Fillol. Nel finale dimezza Passarella con una punizione battuta a sorpresa.
Ma ormai è tardi. Sembra un sogno ma è tutto vero. Anche se la prospettiva di scontrarsi col Brasile dei mostri sacri smorza gli entusiasmi. Ma qualcosa è cambiato e "Italia -Brasile", diventato negli anni poster iconico di quella metamorfosi (“Il Brasile siamo noi”), ne sancirà la metamorfosi. La tripletta di Paolo Rossi, i momentanei pareggi prima di Socrates e poi di Falcao, la paratissima sulla linea di Zoff sul colpo di testa di Oscar all’89esimo minuto (“Furono cinque secondi terribili… temevo che l’arbitro avesse visto male” ricorda il capitano azzurro). E infine il gol annullato ad Antognoni per fuorigioco che in tempo di var non sarebbe stato annullato.
Meglio così, diciamolo. Perchè nel tempo, tra sofferenza e resurrezione, la partita col Brasile è diventato qualcosa che sconfina, col rispetto dovuto, nel racconto omerico. Ancora adesso, rivederla, fa palpitare come se fosse la prima volta. Le hanno dedicato, in questi giorni, servizi e documentari, ma ogni volta si riscopre qualcosa. Anche gli errori e le imprecisioni. Lo stesso Zoff ammette: “Sul tiro di Socrates, avrei dovuto chiudere meglio sul primo palo. Sul tiro di Falcao, lo abbiamo lasciato fare.... Un tiro sinistro poi… Lui che era destro: che ingenuità…".
Dopo il Brasile va tutto in discesa. La semifinale con la Polonia (2-0) e la partitissima con la Germania al Bernabeu. “ Ci sentivamo sicurissimi”, ripete Marco Tardelli, autore della seconda rete e del famoso “urlo” che resterà per sempre nella nostra memoria e anche nelle nostre orecchie.
“Non ci siamo scomposti neppure dopo il rigore sbagliato di Cabrini”, precisa Collovati. “Giocavamo a memoria, non ci faceva paura nessuno. Volevamo vincere, soprattutto per Bearzot che ci ha sempre difeso. Per me è stato un secondo padre. Tanti l’hanno sottovalutato e offeso. Era anche un uomo di grande cultura. Leggeva Cechov e Dostoevskij, ma sapeva parlarci col cuore”.
La pipa di Pertini. Zoff che solleva la Coppa. La famosa partita a scopone sull’aereo di ritorno in Italia dove Pertini rimprovera a Zoff d’aver sbagliato, nonostante fosse stato il presidente a farsi ingannare da Causio... Sono immagini emotivamente travolgenti, che fanno quasi male per la loro carica emotiva. E sono anche specchio di un mondo che era più semplice, a portata d'uomo.
Se avevamo battuto il Brasile, potevamo battere anche l’inflazione e la P2 di Licio Gelli. Anche la resurrezione di Paolo Rossi (capocannoniere del mondiale con 6 reti), diventato il calciatore più popolare del mondo (all’estero la prima cosa che si diceva a un italiano era “PaoloRossi” tutto attaccato) è qualcosa che va oltre al fatto tecnico.
Sia perchè Rossi è mancato troppo presto, sia perchè era un ragazzo “normale”, uno che riemergeva dalle mischie come noi riemergiamo dalle nostre sconfitte quotidiane. Con quel nome così comune, con quel sorriso di ragazzo italiano senza orecchino e tatuaggi. Che esultava senza tirar fuori la lingua o imprecare contro qualcosa o qualcuno. Un uomo semplice che non si è mai vantato di aver vinto nello stesso anno il Mondiale e il Pallone d’oro.
Rimane un senso di nostalgia, di un "come eravamo belli", sentendo ancora adesso questi ex ragazzi (Tardelli, Collovati, Graziani, Oriali, Antognoni e via secondo le preferenze) che si sentono ancora quasi tutti i giorni, tenuti assieme dal filo inossidabile dell’amicizia.
Hanno anche una chat in comune. Ma mai come in questo caso, anche WhatsApp ci sembra benedetto. E se era meglio o peggio 40 anni fa, non importa: lo diranno i soliti chiacchieroni. Forse eravamo più allegri. Sicuramente più giovani. Sicuramente ci restano dei bei ricordi.
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