Letteratura

Dante «scassinatore» della legge

di Gabriele Pedullà

 «Le Figure del Romanzo» un’opera di Meri Gorni, artista che da anni lavora sulle parole e sul rapporto tra arte e scrittura, e di cui è appena stato pubblicato «Debito d’amore», lettere illustrate a pensatori, scrittori e personaggi delle loro opere (Campanotto, Pasian Di Prato, pagg. 112, € 15)

5' di lettura

Dei tanti «Letteratura & …» con cui critici e studiosi cercano di uscire dall’angolo nel quale le discipline umanistiche sono finite negli ultimi decenni, non c’è dubbio che «Letteratura e Diritto» sia di gran lunga la coppia di maggior successo. Negli Stati Uniti il campo è in piena espansione disciplinare, con nuovi curricula, nuove associazioni per permettere a giuristi e letterati di confrontarsi periodicamente e un fiorire di riviste specializzate.

Anche da noi, peraltro, si moltiplicano i corsi di studi in Law and Humanities: con dicitura rigorosamente inglese anche quando li si insegnano sul lago di Como o nei pressi della Basilica di San Paolo. Nel solo ultimo anno, per esempio, sono uscite due corpose raccolte di saggi, rispettivamente dedicate ai rapporti di Machiavelli e di Leopardi con la giurisprudenza, mentre Viella ha pubblicato, in una ottima traduzione di Sara Menzinger, uno dei risultati migliori della recente italianistica anglosassone: Dante e i confini del diritto, di Justin Steinberg (l’edizione originale, molto acclamata negli Stati Uniti, era del 2014).

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Il saggio di Steinberg si presta bene a un discorso più ampio non solo perché rappresenta un vertice riconosciuto in questo tipo di ricerche, ma perché, persino ovviamente, il problema della legge riveste un ruolo essenziale nell’opera dantesca. Di che cosa parla, infatti, l’intera Commedia se non dei premi e delle punizioni comminate da un giudice supremo? Come si impara però a poco a poco leggendo Dante e i confini del diritto, le istituzioni giuridiche che il poema mette più o meno esplicitamente in scena sono in realtà molte di più (dal salvacondotto al patto informale), anche se in molti casi i lettori odierni rischiano di non rendersene nemmeno conto.

Su un punto è necessario evitare subito qualsiasi equivoco: non abbiamo a che fare con uno studio di critica tematica, per quanto aggiornato e sofisticato. Steinberg non ambisce insomma a offrirci un profilo sistematico di quello che Dante ha scritto a proposito del diritto (non poco); piuttosto ci invita a ragionare sul modo in cui categorie, domande e pratiche della giurisprudenza medievale abbiano aiutato il poeta a costruire il proprio universo fantastico e a orchestrare gli incontri del suo viaggio ultraterreno. La condizione di infamia, l’arbitrio del giudice, l’instabilità del patto e le molteplici condizioni di privilegio sono scelte dunque anzitutto come chiavi d’accesso alla immaginazione letteraria dantesca.

Ciò che poi rende particolarmente interessante il caso di Dante è il modo “agonistico” con cui il fiorentino si rapporta al sapere giuridico del proprio tempo. Lo si comprende anzitutto dalle schiere degli eletti e dei dannati, che da un lato vedono puniti alcuni dei fiorentini più rispettati della generazione precedente (Farinata degli Uberti, Tegghiaio Aldobrandini o addirittura l’ammirato maestro Brunetto Latini), mentre, dall’altro lato, tra i salvati si incontrano un pagano come Catone l’Uticense o un Bonconte di Montefeltro (non esattamente famoso per i suoi retti costumi). Condannato dalla sua Firenze, lo stesso Dante attende una riabilitazione postuma: e la tensione tra giustizia divina e diritto terreno che attraversa tutta la Commedia è anche un modo per difendere la propria causa di perseguitato politico.

Una parola cui Steinberg ricorre volentieri a proposito delle intenzioni di Dante è “scandalizzare”. Laddove i commenti standard offrono un’immagine rassicurante delle scelte dantesche, chiosando il suo testo con una varietà di rimandi alle fonti più diverse alla ricerca di precedenti, Steinberg mostra invece come, all’interno di un sistema di riferimenti condivisi, molti degli episodi della Commedia siano concepiti appositamente per scuotere le certezze del pubblico attraverso dei casi singoli chiamati a “problematizzare” l’applicazione della norma generale. Se Dante scandalizza perché la vera giustizia ha sempre qualcosa di scandaloso rispetto alle sentenze degli uomini, qui è importante che lo scandalo si produca sempre per questioni di dettaglio, spesso in aperta polemica con i principi della verosimiglianza forense, che consideravano la fama pregressa degli imputati una attendibile prova contro di loro.

La sensibilità dantesca per l’onere del giudizio finisce così per avere ricadute decisive sulla sua arte poetica. Allo scopo di sovvertire i giudizi tradizionali, Dante è obbligato a offrire racconti estremamente particolareggiati delle vite e delle morti di coloro che incontra nel suo viaggio ultraterreno perché i motivi della loro condanna o assoluzione possono celarsi nel minimo dettaglio. Attraverso il filtro del diritto Steinberg finisce così per riproporre l’antica questione del realismo dantesco, vale a dire della speciale attenzione della Commedia alle individualità dei singoli personaggi (evidente a riscontro della coeva poesia allegorica e anche di un’opera successiva come i Trionfi di Petrarca), spingendosi a coniare per essa la formula di «realismo dell’improbabile».

Anche da questi pochi esempi dovrebbe essere chiaro che il rapporto di Dante con il diritto non interessa a Steinberg per i suoi elementi dogmatici, ma al contrario per i continui problemi che solleva e che, al di là delle questioni di ermeneutica storica e letteraria, chiamano in causa anche i lettori di oggi. Certo Steinberg è perfettamente consapevole che la grande rilevanza per noi di molte delle questioni sollevate dalla Commedia – sull’immagine pubblica, sulla calunnia, sugli usi politici della giustizia, sui pericoli dei provvedimenti ad personam… – non implica in alcun modo l’attualità delle sue risposte. Le convinzioni di Dante non sono le nostre. E la conquista probabilmente più importante del libro di Steinberg è il suo rifiuto del paradigma fondamentale con cui i grandi scrittori medievali e rinascimentali sono stati letti dal Romanticismo in poi: vale a dire della tendenza a fare di loro dei moderni ante litteram, anticipatori talvolta inconsapevoli delle nostre categorie (così che, al limite, la loro grandezza starebbe nell’assomigliarci nonostante i secoli che ci dividono).

Questa tendenza ad “annettere” il passato al presente riguarda i campi più diversi ma Steinberg ne discute soprattutto due: l’individualismo e il realismo. Tanto nel primo quanto nel secondo caso, naturalmente non sono mancati tentativi di mostrare come le idee di libertà creatrice del poeta e di rappresentazione “diretta” del mondo naturale e umano (cioè affrancata dalla stilizzazione datane dai classici del passato), rimangano estranee alla cultura occidentale prima della fine del Settecento. Tali risposte alle letture modernizzanti rimangono però in genere all’interno del medesimo modello binario dei loro avversari, limitandosi a ribaltare la soluzione: così che, al posto di una Commedia eroicamente in rotta con il proprio tempo perché già proiettata sul nostro, ci offrono invece una Commedia schiacciata sulle attese, le convinzioni e i gusti dei suoi contemporanei.

Per quanto non venga mai esplicitato nel libro, Steinberg adotta invece un originale modello ternario (che a dire il vero funziona bene con molti altri autori medievali e rinascimentali, a cominciare da Machiavelli). C’è una modernità, alla quale Dante chiaramente non appartiene. E c’è un articolato sistema di credenze medievali, non solo giuridiche, nelle quali, pure, Dante fatica a riconoscersi del tutto. Ma è all’interno, e solo all’interno, di questo sistema che le novità poetiche e dottrinarie della Commedia possono essere spiegate, perché persino quando la tensione giunge al punto di rottura, essa non proietta mai Dante in avanti, verso il nostro presente, quanto piuttosto di lato: su una posizione di critica anche radicale delle certezze del proprio tempo, che ha comunque poco a che vedere con una ipotetica adesione ai principi di una modernità ancora tutta di là da venire.

Il libro di Steinberg finisce così per presentarci un Dante anzitutto singolare: non completamente riconducibile alle credenze dei suoi contemporanei, né alle nostre. Un Dante, dunque, sicuramente più isolato e idiosincratico (come la sua biografia): ma anche, di conseguenza, più inatteso rispetto a quello consegnatici da una lunga tradizione di studi. E questo non è un piccolo merito.

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