Cassazione

Daspo applicabile anche ai calciatori, se sono violenti

Per punire il giocatore non professionista non basta la squalifica decisa dai competenti organi della giustizia sportiva

di Patrizia Maciocchi

(Bruno Bleu - stock.adobe.com)

2' di lettura

Via libera al Daspo per il calciatore dilettante con la tessera di una federazione sportiva. Ad avviso della Cassazione, infatti, le condotte violente tenute in occasione degli incontri, non possono essere punite solo con le squalifiche, le inibizioni o altre decisioni adottate dai competenti organi della giustizia sportiva. Perché lo sport non è altro che la semplice «occasione da cui scaturisce il comportamento violento».

La squalifica non basta

Partendo da questo presupposto la Suprema corte (sentenza 35481) respinge il ricorso contro la condanna a 6 mesi di reclusione e 5 mila euro di multa, inflitta al calciatore di un club locale per non aver rispettato il Daspo con cui il Questore gli imponeva il divieto d’accesso ai luoghi nei quali si svolgevano manifestazioni sportive. Ad avviso della difesa i giudici territoriali avevano letto male la norma (legge 401/98), fornendo del Daspo un’interpretazione troppo estensiva. Ma alla Cassazione il divieto d’accesso generalizzato va bene. I giudici di legittimità ricordano, infatti, che l’ordinamento considera la violenza legata alle manifestazioni sportive gravissima.

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La ratio della legge è prevenire fenomeni di violenza impedendo, a chi si è dimostrato violento o incapace di controllare «i propri stati emotivi e passionali, legati allo sport, l’accesso, a qualunque titolo, anche partecipativo, ai luoghi in cui si svolgono manifestazioni sportive». Il Daspo non preclude l’attività sportiva, ma si limita a fissare il divieto di accedere, a qualunque titolo, «ai luoghi in cui si svolgono le competizioni, nell’ambito delle attività previste dalle federazioni sportive e da enti ed organizzazioni riconosciute dal Coni».

L’esclusione dei professionisti dal Daspo

Restano fuori dal Daspo i calciatori professionisti stipendiati, perché un ordine amministrativo non può privare un individuo delle sue attività lavorative «dalle quali ricava la retribuzione per le sue esigenze di vita e nelle quali esplica appieno la sua personalità». Una diversa interpretazione - avverte la Cassazione - sarebbe in contrasto con la Costituzione. Nel caso esaminato però il ricorrente, classe ’96, per vivere faceva un altro lavoro, mentre il calcio era una passione. Evidentemente scarsamente tenuta a freno.

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