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Dazi, la Cina risponde a Trump svalutando: yuan -8% in 90 giorni

di Vito Lops

Tregua Trump-Juncker, accordo sui dazi

3' di lettura

Nell’agosto del 2015 la Cina colse di sorpresa un po’ tutti gli investitori. La People’s Bank of China - che opera a braccetto con il Tesoro - annunciò una svalutazione del 2% della divisa. I mercati non erano preparati e reagirono malissimo. Sulle Borse si diffuse rapidamente il panic selling e i listini globali chiusero quel mese con un ribasso mediamente a doppia cifra. Le massicce vendite azionarie furono legate al sospetto che dietro quella svalutazione forte e inattesa si nascondesse una profonda debolezza dell’economia cinese, “nascosta” da buoni dati macroeconomici ufficiali.

A distanza di tre anni siamo punto e a capo. La Cina è lì nuovamente a svalutare lo yuan ma questa volta è diverso. A scatenare la manovra di Pechino non è il timore di un netto rallentamento dell’economia (come nel 2015) ma l’attacco degli Usa sul fronte dazi. Ad oggi sono in vigore dazi Usa sulle importazioni cinesi su oltre 800 beni per un controvalore di circa 50 miliardi di dollari. Ma Trump non ha escluso - nei suoi frequenti e ripetuti attacchi veicolati via Twitter - di alzare l’asticella all’intera torta, ovvero i 500 miliardi di beni che la Cina ogni anno vende agli Stati Uniti.

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CHI DETIENE IL DEBITO SOVRANO USA

Cina seconda dopo la Fed (Fonte: Bloomberg)

CHI DETIENE IL DEBITO SOVRANO USA

Di fronte a queste azioni (sia quelle attuate sia quelle paventate) la People’s Bank of China non è rimasta a guardare. Da aprile ha svalutato lo yuan dell’8% nei confronti del dollaro. Molto più rispetto alla manovra shock del 2015 ma per ora le Borse non l’hanno presa troppo male. Perché in questo caso la svalutazione - può attuarla perché il cambio oscilla su una banda semi-rigida - è più graduale e metodica e perché viene vista come una contromossa ai dazi piuttosto che ai timori di un rallentamento economico che innescherebbe effetti inevitabili sull’economia globale (scenario dell’agosto del 2015).

Pechino sta agendo sul cambio con il misurino (ogni giorno un po’) anche perché vuole evitare la fuga di capitali che accompagnò la svalutazione del 2015. L’obiettivo della banca centrale è recuperare attraverso un cambio più debole la competitività compromessa dai dazi ma allo stesso tempo non perdere la fiducia degli investitori e quindi mantenere i capitali in patria.

È questa la delicata partita che si sta giocando tra Cina e Stati Uniti che difatti senga l’inizio di una nuova era in un rapporto tra i due Paesi che da tempo si reggono su un fragile equilibrio. Nel 1972 a calmare le acque fu la politica del ping pong (così chiamata dopo che uno scambio di visite tra giocatori di ping pong di Stati Uniti e Repubblica Popolare Cinese segnò l’abbrivo di una distensione diplomatica, confermata poi dalla storica visita in Cina dell’allora presidente Richard Nixon). In seguito stabilirono un tacito accordo del tipo “io Cina compro il tuo debito e tu Usa compri le mie merci” che ha portato oggi Pechino ad essere il secondo maggior detentore (dopo la Federal Reserve) del debito Usa (con un quota di 1.180 miliardi di dollari).

Le minacce di Trump sulla bilancia commerciale non possono ignorare l’intreccio finanziario che si è creato tra i due Paesi. Ed è per questo che non pochi credono che alla fine il 45esimo presidente Usa distenderà i toni anche con Pechino. Come ha fatto ieri con Jean-Claude Juncker e come accaduto qualche mese fa con il nordcoreano Kim Jong-un.

twitter.com/vitolops

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