Dazi di Trump, la vera vittima è l’auto europea. Ecco i marchi più a rischio
di Alberto Magnani
4' di lettura
L’escalation della guerra commerciale fra Stati Uniti e Cina sta mettendo a rischio i ritmi di crescita dell’industria dell’auto europea, con ricadute pesanti sui marchi come la britannica Jaguar Land Rover e la svedese Volvo. Sul tavolo ci sono l’instabilità del mercato cinese e lo spettro di dazi del 25% sull’import dalla stessa Europa, con strascichi sia sulla redditività di breve periodo che sugli investimenti tecnologici dispiegati dai produttori: dalla mobilità elettrica agli studi sull’autonomous driving, la guida autonoma, passando per la connettività interna alle vetture.
È l’analisi diffusa dall’agenzia di rating Standard&Poor’s Global sullo stato di salute del comparto Ue, nel vivo delle tensioni Washington-Pechino e delle sue ripercussioni sulla filiera globale delle quattro ruote.
La Casa Bianca ha appena annunciato una nuova tranche di tariffe sull’import cinese per un valore complessivo di 200 miliardi di dollari, facendo scattare una contro-offensiva da 60 miliardi da Pechino. Ma i dolori per l’industria globale erano già iniziati con il botta e risposta dello scorso luglio, quando Trump ha imposto dazi del 25% sulle vetture provenienti dalla Cina e la Cina ha replicato alzando al 40% (dal 15%) le tariffe sui modelli in arrivo dagli States.
Il primo nodo: l’instabilità della Cina
Gli ultimi sviluppi della guerra commerciale aumentano l’incertezza sulla piazza cinese, intesa sia come mercato a sé sia come snodo logistico per la produzione di componentistica e hub per le esportazioni. Sul primo fronte si è già registrata una flessione del 5,3% delle vendite di auto ad agosto, portando la prospettiva di crescita annuale al 2,6%. Come sottolinea il report, la debolezza del mercato cinese (valido per un terzo del commercio globale) si trascina necessariamente sul resto del comparto, già fiaccato dalla stasi delle vendite in Stati Uniti. Quanto alla penalizzazione della Cina come hub, le conseguenze sono anche più evidenti. Brand europei come Volvo avevano eletto il gigante asiatico a proprio hub per le esportazioni di alcuni modelli, in linea con le scelte strategiche di player statunitensi del calibro di General Motors e Ford. L’inasprimento doganale voluto da Trump ha ridotto la convenienza di una presenza in Cina, aumentando la probabilità di un - costoso - trasferimento delle strutture produttive in altri paesi.
Il secondo nodo: i dazi sull’Europa. Jaguar LR e Volvo a rischio
Il secondo nodo colpirebbe anche più a fondo la tenuta dell’industria Ue: i dazi del 25% sulle auto europee minacciati da Trump, allontanati dopo il vertice con il presidente delle Commissione Juncker e tornati in auge nelle ultime settimane. L’analisi di S&P fa notare che l’aliquota nuocerebbe soprattutto alle aziende sprovviste di impianti di produzione negli Usa. Un handicap quasi irrilevante per marchi di lusso come Porsche o Lamborghini, ma del tutto sensibile per i marchi della cosiddetta fascia premium. La britannica Jaguard Land Rover rischia di perdere l’equivalente di un quinto delle sue vendite globali, danneggiandosi su un mercato americano che era cresciuto del 3,6% ne primi otto mesi del 2018. Volvo, di nuovo, sarebbe esposta a squilibri simili.
Il produttore svedese ha inaugurato lo scorso anno un impianto in Sud Carolina, destinato però alla produzione di un modello (le berline) oggi poco gradito alla clientela americana. Il suo vero motore di crescita, i Suv, sono prodotti in Cina (si veda il modello XC50) e potrebbero esserlo anche in Europa, ricadendo in pieno sotto al regime sfavorevole dei dazi della Casa Bianca. Si prevedono impatti, più contenuti, anche su brand come Bmw e Volkswagen. Bmw sta già scontando la maxitariffa cinese (40%) sulle esportazioni in Cina dei suoi Suv prodotti negli Usa. Volkswagen è in attesa di capire come si evolverà un altro fronte aperto, quello degli accordi bilaterali Usa-Messico. L’azienda tedesca è radicata dagli anni ’60 del secolo scorso a Puebla, nel suo più grande stabilimento fuori dalla Germania, dove lavorano oltre 13mila dipendenti.
L’effetto domino su emissioni e transizione all’elettrico
Se confermati, i dazi anti-Ue provocherebbero un aumento dei costi per la produzione europea, ritardando o compromettendo anche il raggiungimento di target ambientali e tecnologici. Il rialzo delle spese per esportazioni e importazioni sottrarrebbe risorse all’adeguamento ai parametri di emissioni richiesti alle aziende, per ora attesi solo da alcuni produttori (peraltro non sempre europei, come Toyota). Senza dimenticare un rischio, più immediato, per la reddività stessa delle aziende. La somma di tariffe e investimenti sulle tecnologie necessarie alla sopravvivenza di lungo periodo, dall’elettrificazione alla connessione delle vetture, rischia di schiacciare ancora di più i margini di profitto.
Le ricadute sugli Usa: 715mila posti di lavoro a rischio
Sull’altra sponda dell’Atlantico, ovviamente, la situazione è anche meno rosea. Un report del Center for automotive research, un istituto di ricerca di settore, ha stimato che le tensioni commerciali fra Usa e Cina potrebbero costare all’industria statunitense l’equivalente di 2 milioni di vetture vendute l’anno e almeno 715mila posti di lavoro. Quanto a basta a bruciare 62 miliardi di Pil americano nell’arco di 12 mesi. Il rischio, dice il report, è di «esacerbare» una serie di problemi già radicati nella filiera Usa delle quattro ruote. Le ritorsioni contro la Cina, dicono gli autori, stanno rendendo «anticompetitivo» un motore economico del paese.
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