«Deep Tech ossessionato dai soldi facili, meglio fare un’impresa duratura»
In un ristorante del borgo medievale di Perugia, l’imprenditrice di Amity (sede a Bangkok) racconta potenzialità e lati oscuri di capitalismo digitale e finanza
di Paolo Bricco
6' di lettura
«Vedo le migliori menti della mia generazione concentrate e affannate nel tentativo di ridurre di cinque minuti i tempi di consegna della pizza o del sushi. Ma ti sembra il caso? Questo mi fa sorridere. Non credo che, così, le nuove tecnologie possano veramente contribuire al miglioramento dell’umanità. Come mi fa sorridere che tutti gli imprenditori del deep tech siano ossessionati dal fare soldi, per fare soldi, per fare soldi. Pensano giorno e notte ai multipli, alle quotazioni, alle Ipo. Questa è la regola. Accade così ovunque. A New York e a San Francisco, a Milano e a Londra, a Taiwan e a Bangkok. In pochi sono animati dall’idea di edificare un’impresa duratura. La regola del capitalismo è la costruzione della ricchezza. Ma non solo quella materiale. Il miraggio del denaro è coinvolgente. Ci mancherebbe. Nessuno è ipocrita. I soldi piacciono a tutti. Ma il tema della valorizzazione finanziaria delle start up, con l’approdo in Borsa sui mercati internazionali o con l’ingresso massiccio nel capitale dei fondi di private equity e degli investitori istituzionali, non può cancellare il progetto tecnoindustriale e non deve offuscare la realtà del divertimento di fare cose nuove usando strumenti nuovi e cambiando in meglio la struttura delle cose e l’infrastruttura del pensiero, gli stili di vita e le abitudini».
Francesca Gargaglia è svelta ma non ipercinetica, ironica e gentile ma senza il desiderio di compiacere gli altri. È inserita nel circuito più avanzato del capitalismo tecnologico e finanziario internazionale, da cui ha mutuato la semantica del sì e del no, e tutto il resto è del diavolo, che nel vangelo dei mercati della globalizzazione e della post-globalizzazione separa in maniera radicale le élite cosmopolite dalla buona educazione al consenso – e non all’assenso o al dissenso – delle classi dirigenti italiane, mature se non senescenti, che hanno eloqui avvolgenti, densi di avverbi, mai diretti.
Francesca ha compiuto 31 anni. Ne dimostra dieci di meno. È di Perugia, dove ha vissuto fino ai diciotto anni con la madre Gina (medico), il padre Vasco (dirigente locale di Confcommercio) e la sorella Chiara, che ha sei anni in meno di lei. Siamo al ristorante La Taverna: «Mia mamma è di Cirò. Si è trasferita a Perugia dalla Calabria a diciotto anni per studiare medicina. Quando mio nonno Pino veniva a trovarla, lei lo portava sempre qui a mangiare». La città medievale ci ingloba, con l’affastellarsi di edifici antichi e lo snodarsi di vie e di acciottolati. I tavolini sono in lieve pendenza. I profumi della cucina umbra invadono il dehors, nella loro inconfondibile mistura di cibi di terra e di bosco. «Io prenderei un calice di brachetto», dice. Io, invece, vado su un bicchiere di rosso di Montefalco. Gargaglia ha una laurea alla Bocconi in giurisprudenza, con una tesi sulle multinazionali e i diritti umani. Ha prima lavorato a Dubai nello studio legale Baker McKenzie. Quindi si è spostata a Johannesburg, in Sud Africa, al desk istituito da PWC per fornire supporto legale e strategico alle imprese interessate a investire nei Paesi sub sahariani: «È stato molto utile. Perché, da giovanissima, ho potuto collaborare con dirigenti, senior e con molta esperienza, di grandi gruppi italiani e stranieri. Ma, nella consulenza, mi annoiavo. E, così, quando ho conosciuto i miei attuali soci, che avevano già iniziato a lavorare insieme negli Stati Uniti, mi sono aggregata».
Come antipasto, Francesca sceglie una insalata di spinaci con bacon croccante e scaglie di grana. Io, invece, prendo le uova strapazzate al tartufo nero con toast. Il quartiere generale del suo gruppo, Amity, è a Bangkok. Il core business è la trasformazione delle app dei grandi brand in senso plastico e il trattenimento del valore aggiunto e la gestione dei rischi in capo alle grandi imprese: «Consideriamo due marchi iconici come Harley Davidson e Ferrari. Le app tradizionali sono rigide. Nella normalità tutto il traffico e tutta la gestione dei dati, che sono la vera ricchezza del nuovo mondo digitale e iperconnesso, sono in capo agli Over The Top, i famosi OTP. E, lo stesso, accade con la gestione del rischio: Ferrari e Harley Davidson non hanno un reale controllo di quello che accade in rete. La nostra società riesce a rendere queste app molto più plastiche, a funzionalizzarle, a consentire all’azienda di trattenere il valore aggiunto e di misurarsi meglio con il rischio, intervenendo sulle dinamiche di community che si creano fra i suoi clienti e i suoi fan che, appunto, operano attraverso la sua app».
Di primo lei prende le tagliatelle al pepe nero e al pecorino. Io i chitarrini con pancetta, pecorino, pomodoro e basilico. Francesca è a capo delle strategie del gruppo, incardinato su Amity, che ha già adesso una valutazione pre-money stimata fra i 250 e i 300 milioni di dollari. I due primi fondatori sono Korawad Cheravanont (classe 1994) e David Zhang (1990). Un terzo del capitale dell’azienda è in mano ai tre soci fondatori. Loro tre sono un esempio della contaminazione Asia-Europa-America. Zhang, americano di origini cinesi, è l’autore della scrittura del programma che permette ad Amity di togliere rigidità alle App e di ridurre la dipendenza dei marchi titolari di queste ultime dagli Over The Top: se fino al 2018 il coding aveva una struttura monolitica, da quell’anno è diventato “modulare”, e appunto Zhang è fra gli specialisti più reputati a livello internazionale. Korawad, a quattordici anni, è stato mandato dalla Thailandia a studiare negli Stati Uniti, in New Jersey. Lui è nipote di Danin Cheravanont, il fondatore della dinastia imprenditoriale della Thailandia che, oggi, conta su un patrimonio stimato da Forbes in 37 miliardi di dollari. La conglomerata dei Cheravanont è la CP Group, che ha ricavi per 67 miliardi di dollari. La quarta famiglia più ricca d’Asia – oggi guidata dal padre di Korawad, Supachai – è di origine cinese. Danin, nel 1939, emigrò dalla Cina in Thailandia. E, da lì, iniziò a commerciare in prodotti agricoli, in sementi e in animali da allevamento con il suo Paese d’origine. La fortuna dei Cheravanont coincise con l’apertura – relativa, ma vitale – della Cina ai flussi commerciali da e per l’estero e ai primi investimenti stranieri. Era il 1958. Mao Zedong formulò il secondo piano quinquennale, conosciuto come “Il grande balzo in avanti”: la ricerca per la Cina di una via originale verso il comunismo sarebbe stata possibile soltanto con uno sviluppo insieme industriale e agricolo. E i Cheravanont, grazie alla origine cinese del patriarca e ai legami con il Partito Comunista, divennero gli intermediari principali per chiunque volesse commerciare con la Cina o aprirvi uno stabilimento.
Korawad ha conosciuto alla Columbia University David Zhang. Insieme hanno iniziato a lavorare ai primi progetti al Tiger Labs, un incubatore di New York. Francesca – la componente europea di questa miscela in primo luogo asiatica e americana – mangia lentamente, senza voracità, ma mangia tanto. Di secondo prende un branzino con delle verdure. Io scelgo delle piccatine di filetto al sagrantino passito. A tavola, dà fondo a tutto. Non sembra conoscere il significato della parola “piluccare”. Sul cibo, non interviene in lei il sentimento della noia. «Fin da bambina – racconta – sono stata animata da due pulsioni: imparare in fretta e sfuggire alla noia. A cinque anni insistetti molto con i miei genitori perché mi iscrivessero alla primina. Volevo andare a scuola un anno prima. Sono sempre andata bene. Ma, dopo il ginnasio nel liceo pubblico di Perugia, chiesi ai miei genitori di cambiare scuola perché mi sembrava di imparare troppo poco. I compagni e i professori, di fronte alle mie spiegazioni, mi guardavano come una marziana. Alla fine, mi iscrissi al terzo anno del liceo scientifico. Quando, poi, qui in città aprì un liceo montessoriano, tornai dai miei genitori e chiesi loro di potere iscrivermi di nuovo al classico, perché ci tenevo a prendere il diploma di maturità classica studiando latino e greco, storia e filosofia».
Arrivano i dolci. Francesca ha preso una torta fatta con la cioccolata dei baci Perugina. Io, invece, una torta di mele. «In questo momento, non è facile vendere tecnologia, perché tutti tagliano i budget. Dal punto di vista dell’equity, viviamo il così detto inverno del funding. Noi di Amity stiamo cercando di costruire un percorso razionale e armonico di crescita. Non stiamo sviluppando un business per quotarci, anche se il nostro obiettivo è essere ammessi al Nasdaq entro cinque anni. Stiamo costruendo un progetto industriale che, in qualche maniera, non sia sottoposto ai continui cambiamenti e alle ondate emotive del deep tech. Prima tutti facevano quick commerce, per il cibo e per la moda. Poi c’è stato il momento del metaverso. Adesso in tanti lavorano sulla intelligenza artificiale. La nostra ambizione, che stiamo gradualmente realizzando, è di fare una impresa».
Mentre beviamo il nostro caffè nel cuore di una città medievale, mi rendo conto come questa giovane donna sorridente – nel suo passare da Perugia a Milano, da Johannesburg a Bangkok, per imparare cose nuove e per non annoiarsi – incarni bene, nella contaminazione esistenziale e imprenditoriale con i soci e amici Korawad e David Zhang, l’intuizione dello storico Fernand Braudel sulle “migrazioni” dei centri propulsivi della storia: dal Mediterraneo all’Atlantico e, ora, al Pacifico, come nuova economia mondo.
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