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Deficit verso il 7-8% per un decreto Aprile da oltre 60 miliardi

Gentiloni e Centeno: subito il Recovery Fund ma in Italia lite Pd-Iv sul Mes. Almeno due punti di disavanzo per finanziare garanzie, ammortizzatori, enti locali e sanità

di Marco Rogari e Gianni Trovati

Coronavirus, decreto liquidità: garanzie a tre vie per le Pmi

3' di lettura

La possibilità di radunare per l’emergenza i «10-11 miliardi di fondi europei» non spesi, che il viceministro all’Economia Antonio Misiani è tornato a evocare, rappresenta l’unica decisione della commissione Ue in grado di incidere direttamente sul cantiere del decreto Aprile. Cantiere che però viaggia in parallelo con il complicato negoziato sulla linea Roma-Bruxelles, perché impone uno «scostamento molto consistente» (parole sempre di Misiani) rispetto al deficit già ritoccato poche settimane fa per fare spazio al decreto Marzo.

E la leva delicata del deficit ha bisogno dell’autorizzazione parlamentare ma anche di una prospettiva sul terreno europeo rispetto al preaccordo della settimana scorsa circondato dalle minacce italiane di mancata firma se non arrivano rassicurazioni sugli Eurobond.

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Si chiude così il cerchio delle variabili che ritardano rispetto al calendario originario la fase di avvio di un decreto che fra i suoi compiti cruciali avrà quelli di costruire la riserva necessaria alle garanzie previste dal provvedimento sulle imprese, rifinanziare e allargare ammortizzatori e strumenti di sostegno al reddito e rispondere alle richieste sempre più pressanti di Regioni ed enti locali con le casse che si stanno svuotando. Ma l’allungamento dei tempi allunga i compiti del decreto, che dovrà imbarcare anche un capitolo dedicato a ripresa e investimenti per evitare che l’attesa della ripartenza diventi infinita.

Basta questo menù di massima a misurare la dimensione del problema.

Dal ministero dell’Economia non filtrano cifre ufficiali, che in base al metodo chiesto dal titolare dei conti Roberto Gualtieri dovranno seguire e non precedere la definizione puntuale delle misure. Ma le ipotesi parlano ormai di un disavanzo aggiuntivo non inferiore al 2%, su cui poggiare un provvedimento che non potrà valere meno di 60 miliardi. Una decisione di questo tipo porterebbe il deficit ufficiale italiano intorno al 5,3%, in un calcolo però solo teorico perché non tiene conto degli effetti della recessione. Ma anche su questo i primi numeri non si dovrebbero far attendere molto. Perché il Def è slittato ma dovrebbe comunque vedere la luce per la fine del mese e difficilmente nelle sue tabelle il disavanzo di quest’anno potrà fermarsi sotto il 7-8 per cento.

Cifre inevitabili in quella che si profila ormai come la crisi più dura del Dopoguerra, ma impensabili fino a qualche settimana fa. Nessuno ovviamente in questa fase mette il contenimento del deficit fra le priorità. Ma numeri di questo tipo sono benzina sul fuoco delle paure per i rischi che corrono i conti pubblici.

Si spiegano così le tensioni interne alle istituzioni comunitarie per superare lo stallo, materializzate nel rilancio del commissario all’Economia Paolo Gentiloni secondo cui «questo è il tempo delle scelte» e «il piano per la rinascita, con il Recovery Fund per finanziarla, non può aspettare che tutto sia finito». Fretta condivisa anche dal presidente dell’Eurogruppo Mario Centeno.

Ma si spiega così anche perché il Mes riveduto e corretto dal preaccordo dell’Eurogruppo continui a rappresentare una mina innescata sotto il terreno della maggioranza. «Non lo useremo», ha ribadito ieri Misiani in linea con le parole di Gualtieri nei giorni scorsi. Ma tanto è bastato per far partire l’attacco di Italia Viva: «In quale riunione di maggioranza è stata presa questa decisione populista?», chiede il responsabile economico dei renziani Luigi Marattin. Che invoca «un microscopio ad altissima risoluzione» giudicandolo ormai necessario «per cogliere le differenze fra Pd e M5S».

È in questo clima che la maggioranza dovrà cercare un identikit condiviso per il decreto Aprile. Molti dei suoi interventi sono di fatto obbligati, dai 30 miliardi (di saldo netto ma non di deficit) delle garanzie ai 15 indispensabili per gli ammortizzatori sociali e il sostegno al reddito, fino agli almeno 2-3 miliardi per continuare a sostenere sanità e Protezione civile.

Ma altri dossier sono da definire, spesso incrociati fra loro. Comuni, Province e Regioni sono sul piede di guerra, il governo ha assicurato un trasferimento aggiuntivo e le ipotesi arrivano fino a 5 miliardi di euro. Ma nel Pd si punta a far passare dai Comuni anche un nuovo round di aiuti alle famiglie in difficoltà, battendo il sentiero avviato con i 400 milioni della «solidarietà alimentare». Mentre per i Cinque Stelle la via da seguire è il «reddito di emergenza», che i Dem derubricano come allargamento a colf, badanti, stagionali e lavoratori discontinui dei sostegni avviati con il decreto Marzo.

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