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Di vestiti e di vestiari. Di involucri e dei loro abitanti

Milovan Farronato, il curatore del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia, ha ideato per il nuovo IL una galleria di abiti animati. In una quadreria contemporanea, che ricorda le pose del ritratto rinascimentale, amici e artisti improvvisano rendez-vous di tessuti e trame. Con un particolare: i capi sono tutti del suo guardaroba personale

di Milovan Farronato

6' di lettura

Due signorine d’ineffabile fisionomia, di incerta maturità, di perennial sembianze, trafelate tanto quanto indaffarate, si rincorrono al di sopra degli umani destini. L’una brama l’attenzione dell’altra, richiede rispetto per le facilitazioni che ha offerto e soprattutto vanta una parentela: vuole essere riconosciuta come legittima sorella. La seconda invece, poiché cieca, tentenna, necessita argomentazioni eloquenti e affabulanti doti di persuasione che la prima, tuttavia, non disdegna a corrispondere. Anzi, il suo lessico e incandescente, febbricitante. È lei a mantenere livido il dialogo fino a quando la compagna di viaggio non puo far altro che capitolare e ammettere la realta di una intima sorellanza.

Una galleria di abiti animati

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Così Giacomo Leopardi, intorno alla metà del febbraio del 1824, immaginava l’inaspettata conversazione tra la personificazione della Morte e quella della Moda. Entrambe figlie di Caducità – l’altro genitore non viene rivelato – sorvolano sprezzanti le vicende del mondo disquisendo amabilmente di stili, di responsabilità e della loro congenita attitudine a rinnovare l’esistenza. Quale delle due, mi chiedo io, è la sorella maggiore? Quella che incarna l'atteggiamento paternalistico di chi normalmente è nato prima, di chi rivendica diritti e vuole in qualche modo imporre una sua autorialità? È la Moda quindi la primogenita? O invece il suo bisogno di riscontro e approvazione suggerisce di più l’attitudine di una secondogenita che cerca legittimazione? E lei comunque ad avere le battute migliori!

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In molti, da Torquato Tasso a Charles Baudelaire fino a Walter Benjamin, hanno immaginato la Moda come una spirale fatta di continui ritorni e avvolgimenti, «l’eterno ritorno del nuovo», «la metà dell’arte». Friedrich Wilhelm Nietzsche ne evidenzia l'infinita forza liberatoria. La Morte, invece, passa e non si cura, tranchant, in qualche modo addirittura naïf. Una linea certa e, per certi versi, addirittura rassicurante, un segmento di vita da un punto a un altro. E poi il filo viene reciso. Svolgendo la matassa della Moda, sicuramente si incontrerà una longevità più estesa del filo teso di cui la Morte è misura. A confermare questa ipotesi chiamo in causa gli spettacoli di corteggiamento dell’Uccello del Paradiso, che i Maya e gli Aztechi chiamavano Quetzal.

La sua minuta possanza fisica si trasforma nella stagione degli amori, per dismorfismo, in un imponente pavoneggiante ovale dalle folgoranti cromie. Impettito, prepara meticolosamente la sua passerella su cui andrà a esibirsi in una sfilata di danze acrobatiche, configurazioni estetiche mirabolanti e inaspettati camuffamenti. Altrettanto seducenti sono le concatenate geometrie circolari che il Pesce Palla incide nella sabbia per attirare il partner. Con movimenti repentini e costanti della pinna anale vince la corrente imprimendo tracciati che ricordano perfetti mandala. Con le sue nacchere toraciche crea dune e nicchie, concavi e convessi, sfumando il tutto in delicati chiaroscuri. Questi microscopici Jantar Mantar sono opere d’ingegno e meticoloso calcolo matematico, necessarie invenzioni per poter produrre nuova vita. La Moda qui, come intesa da Goethe, morfologicamente, assume un ruolo evolutivo, darwiniano. E anche se, come alcuni sembrano suggerire, non fosse così verificabile la diretta dipendenza di questi rituali e apparati ornamentali all’istinto riproduttivo, pas mal: gli avviluppamenti e le contorsioni rimangono pellegrinaggi spettacolari. Mezzi senza Fine.

Una sequenza dei provini degli scatti di Fenton Bailey per IL

A ogni modo, le due sorelle manifestano un rapporto al limite della co-dipendenza. Patologico, viscerale. Incerto nell’origine della sua certezza. Chi viene prima, chi dopo? Una contaminazione endemica, forse addirittura una vera e propria pandemia, una tautologica reazione alchemica che si diffonde e si perpetua. Un intreccio divino. Un incontro con il Destino. A questo proposito, la reinterpretazione proposta da William Somerset Maugham della 53esima Sukkah del Talmud babilonese, intitolata Appuntamento a Samara (1933), narra dell’inaspettato e prematuro incontro di un servo nel suk di Baghdad con la Morte che lo sorprende tra la folla. È proprio lui, il servo, a catturare la sua attenzione. Gli pare di interlegere un gesto di stizza, uno sguardo di minaccia. Deve fuggire, presto, subito. Il tempo sembra volgere al termine. E così prontamente chiede in prestito al suo padrone il cavallo migliore, lo stallone piu vigoroso per galoppare in fretta e furia verso la lontana Samara, al riparo. A questo punto del racconto e Sua Grazia, il padrone, a dover concludere le provvigioni, e così facendo anch’egli si imbatte nella misteriosa signora che sembra tuttavia ricambiargli un sorriso. Confortato da questo cenno di cordialità, si sente invogliato ad approcciarla per comprendere le ragioni di quel gesto intimidatorio nei confronti del suo più fedele e onesto servitore. Risponde lapidaria la Morte: il mio gesto non era di minaccia, bensì di sorpresa. Fui stupita di vederlo a Baghdad poiché avevo un appuntamento con lui questa notte a Samara.

Uno scatto nello scatto: dai provini del servizio realizzato da Fenton Bailey

E se l’incontro ordito dal Destino non fosse stato con la Morte ma, tra le mille mercanzie, spezie e tappezzerie del mercato orientale, il servo avesse incontrato la sorella, maggiore o minore, confondendone i tratti? E se al mercato di Baghdad si fosse imbattuto nella Moda, con quella sua gestualità intimidatoria e al tempo stesso ammiccante, come del resto spesso si percepiscono i movimenti sfuggenti di questo campo volubile e voluttuoso? E se, infine, il genitore mancante all’appello, l’amante più o meno segreto di Caducità, non fosse altro che lui: il Destino?

Inaspettatamente, alcune parole di Giorgio Agamben sul contemporaneo risulterebbero decisamente pertinenti. Contemporaneo e colei o colui che sta sempre un po' fuori dal tempo, chi vive dentro senza combaciare perfettamente con i suoi bordi. Un differenziale temporale. La luce nell’ombra. Chi riceve in pieno viso un segnale attraverso le fiamme; il fascino di tenebra emanato dal presente prima che diventi tale. Agamben parlava della Moda, non delle mode. E allora giustamente, questi segnali, questa fascinazione, andrebbero riconosciuti a Baghdad, non a Samara. E che bello sarebbe se il Destino si rivelasse essere il padre della Moda, questa stretta parentela la assolverebbe da molti condizionamenti, dipendenze, tendenze, calcoli. Libera e sfuggente, capace addirittura di beffeggiare il genitore e disegnare incontri fortuiti prima che vengano pianificati. La renderebbe la sorella ribelle che non accetta pienamente le regole imposte e che ama manifestarsi anzitempo. L’importante è riconoscere il momentum che ella offre. L’altra sorella invece, quella minore, forse poiché piu ligia alle regole, non ci si deve adoperare a identificarla; sara lei, nostro malgrado, a riconoscerci.

A questo proposito, mi appare in una rivelante allucinazione il vestito bianco di Marilyn Monroe. Esposto all’asta qualche decennio fa, l’abito incarnava in sé il perfetto connubio delle due sorelle. La Moda e la Morte, eros e thanatos. Un abito intero, pienamente sbracciato in un generoso décolleté a vista, estradossato. Un tubino candido sotto le ginocchia, arricciato frontalmente in area inguinale, quasi a segnalare il mistero ineffabile che catturò l’attenzione del nuovo proprietario: il pioniere scandinavo della pornografia Ole Ege. Per lealtà, o forse ossessione, Ege fece ricreare un manichino con le esatte misure della diva di Hollywood, rivelatosi infine troppo piccolo per calzarle perfettamente. Era del resto un corpo mitico, non dichiarato realmente. Lo stesso capo di vestiario e immortalato dall’artista cipriota Christodoulos Panayiotou in uno scatto che lo restituisce come involucro abitato da un vuoto perfetto. Un luogo ideale, dove le narrative biografiche sono distillate di un’aura muta, una grandeur mitologica. La sua triste esistenza, e questo cimelio.

Che cosa accade dunque all’abito una volta svuotato del suo abitante? È esso stesso irraggiato dall’umanità di chi lo ha imbozzolato, diventando carico di una natura ibrida, di un carattere amorfo, mutevole, umorale come un’adolescente, risultandone patologicamente corrotto dai caratteri di tutti coloro che lo hanno indossato? La vulnerabilità dell’abito è autentica, se vestendolo ci si immagina di vestire un personaggio, rivisitarlo, farlo proprio. Esistere nella trasformazione, e in quella stessa trasformazione avere necessita di un pubblico.

È per questo che, in ricorrenti serate d’improvvisazione, ri-animo il mio guardaroba a vista, esposto, esibito, messo a nudo, non protetto, dislocato su grucce più o meno efficienti, talvolta genuflesse e prostrate causa l’accumulo senza ordine. Invito amici e ospiti, colleghi e amanti a far in modo che le sfumature delle loro personalità – come direbbe una mia amica, l’artista Sissi aka Daniela Olivieri – escano al di fuori del buio del mio armadio e si tramutino in vuoti riempiti. Come un pagurus armatus – quel simpatico crostaceo in perpetua ricerca di una nuova casa che e anche una nuova veste – ognuno dei miei invitati cercherà nel mercatino vintage delle mie conchiglie dismesse il suo indumento più adatto. Tanti vestiti quante fasi della mia vita, dislocate in varie stazioni. I principali vestiari, per fortuna, trovano riparo a Londra e a Milano. L’estivo invece resta al mare, abbandonato di stagione in stagione, depositato non in un armadio, ma incastonato in angusti spessori di muro, dove i capi provano per primi l'ebrezza estiva, per poi lasciarsi andare alla solitudine invernale costellata di umidità, salsedine ed efflorescenze micotiche. Spesso resto sorpreso nella riesumazione di capi che avevo apparentemente rimosso, o che avevo comprato per un unico piacere visuale. Li offro dunque ad altri, condividendo memorie dove, per primo, il mio corpo si e rifugiato, dando forma a nuove e inaspettate trame. Una simbiosi. Diventano involucri che abitano nuove psicologie, e il garment stesso abita loro per la durata di questo transito.

Ma se in questi rendez-vous improvvisati comprendessero di trovarsi meglio con loro che non con me? Allora…glieli regalo, lasciando che il vestiario prenda vita e forma. Omaggio l’abitante, o il visitatore del mio locus amoenus, permettendomi così di scavalcare la damnatio memoriae, la tabula rasa, l’annichilimento. E così facendo non inseguo la Moda, bensì continuo a corteggiarla in incontri fortuiti e occasionali – co-temporali, a volte anche prima del tempo... O almeno, fino a quando la sorella minore non mi verrà a cercare.

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