Depositi bancari, così crescono i fattori di rischio e cambiamento
Analisti, operatori ma anche risparmiatori, nell’analizzare i rendiconti finanziari delle banche, sempre più si soffermeranno sull’andamento dei depositi.
di Rony Hamaui
3' di lettura
Analisti, operatori ma anche risparmiatori, nell’analizzare i rendiconti finanziari delle banche, sempre più si soffermeranno sull’andamento dei depositi. Questo non solo perché ciò che ha accomunato le recenti crisi bancarie nelle due sponde dell’Atlantico è stata una fuga dai depositi, ma anche perché in questo momento i depositi bancari, guardati a lungo con indifferenza se non con sospetto da molte banche, che talvolta li hanno persino penalizzati, oggi stanno diventando strategici. Come in ogni momento di restrizione monetaria e di rialzo dei tassi d’interesse, i depositi bancari si stanno riducendo, poiché i risparmiatori tendono a cercare migliori opportunità. E oggi questa tendenza è accelerata da tre fattori fondamentali. In primo luogo, l’ampiezza e la durata delle politiche monetarie espansive adottate nonché la diffusa presenza di tassi d’interesse negativi ha indotto molti risparmiatori a lasciare una percentuale importante del loro patrimonio depositato presso il sistema bancario. Ora la forte inflazione e la velocità con la quale sono stati rialzati i tassi non possono lasciare a lungo indifferenti i risparmiatori, che vedono rapidamente erodere il loro patrimonio. Basta ricordare che a marzo il tasso medio sui conti correnti praticato dalle banche italiane è stato dello 0,26% a fronte di un’inflazione a due cifre da più di un anno e titoli di stato che offrono rendimenti superiori al 4 per cento.
In secondo luogo, il vasto utilizzo di politiche monetarie non convenzionali ed in particolare del Quantitative Easing (QE), ha gonfiato i bilanci delle banche centrali e commerciali incrementandone la liquidità e quindi i depositi. Ora che è stato avviato il Quantitative Tightening (QT), cioè la vendita o il non rinnovo dei titoli in scadenza, le banche vedono gradualmente ridursi i loro depositi, soprattutto da parte degli investitori istituzionali. In Italia, ad esempio, dopo che negli ultimi 10 anni i depositi bancari e postali erano quasi raddoppiati, a febbraio sono caduti del 4,3% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.
La terza ragione ha a che fare con cambiamenti strutturali nei modelli di business delle banche. Tradizionalmente a fronte di una diffusa rete di costosi sportelli potevano godere di una stabile e poco costosa base di depositi con i quali finanziavano impieghi ed investimenti. È il “deposit franchise”, ovvero la possibilità di limitare i rischi di liquidità nei momenti di restrizione monetaria e contenere la crescita dei costi della raccolta . Ora le recenti innovazioni di processo (digital banking) e di prodotto (nuovi investitori che offrono nuovi strumenti) sembrano far venire meno questo assunto. Si pensi che Apple, con Goldman Sachs, sta lanciando una carta di credito elettronica che offre ai risparmiatori il 4,25% sulle loro giacenze, dieci volte quanto pagato dalle banche americane.
Da qualche anno le banche tradizionali ed in particolare molte italiane sono state in grado di intercettare i depositi in uscita incanalandoli su fondi comuni e polizze vita da loro gestiti, così i soldi dei risparmiatori rimangono all’interno del gruppo bancario. In futuro questo risultato non è garantito.
In questo contesto anche le autorità di vigilanza valutano cambiamenti nella regolamentazione. L’attenzione dapprima si è riversata sul Liquidity Coverage Ratio (LCR): il coefficiente di liquidità che secondo le regole di Basilea le banche devono detenere per far fronte ad un improvviso deflusso di fondi. Sinora si è supposto che le banche in un mese potessero perdere fra il 3 e il 10% dei depositi e che quindi dovessero detenere almeno un equivalente valore di titoli facilmente liquidabili. Tuttavia, le recenti crisi bancarie hanno mostrato come queste cifre oggi non siano più realistiche. Gli eventi recenti suggeriscono anche una maggiore differenziazione tra depositi stabili garantiti e quelli non garantiti.
Infine, è in corso un acceso dibattito se valga la pena aumentare la soglia dei depositi garantiti, decisone che spetta, non al comitato di Basilea, ma ai singoli Paesi. Negli Usa, ad esempio, il livello è fissato a 250mila dollari, nella Ue a 100mila euro e in UK a 85mila sterline. Se un aumento della soglia renderebbe i depositi più stabili è indubbio che da un lato accrescerebbe l’azzardo morale dei risparmiatori (non di molto a nostro avviso), dall’altro comporterebbe un costo per le banche o per lo Stato che ricadrebbe sui clienti o sui cittadini. City Bank ha stimato che un raddoppio della garanzia sui depositi costerebbe all’Eurozona circa 74 miliardi di euro in un orizzonte pluriennale. Tutto questo ci fa credere che, dopo tanti anni di “disattenzione”, i depositi nel futuro saranno ben più rispettati e forse remunerati. O meglio: depositanti di tutto il mondo unitevi! È il vostro momento.
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