dopo il sì dei cinque stelle a draghi

Di Battista lascia il M5S. O è soltanto un altro arrivederci?

Getta la spugna l’ultimo giapponese sull’isola del Movimento che non c’è più

di Manuela Perrone

Alessandro Di Battista, da pupillo di Grillo all'addio al M5s

4' di lettura

È stato Davide Casaleggio, venerdì mattina, a riconoscergli «onestà intellettuale» e «coerenza». Senza sorprendere nessuno: Alessandro Di Battista è l’ultimo giapponese sull’isola del Movimento che non c’è più, quella a cui Casaleggio resta aggrappato ma dalla quale la maggior parte dei pentastellati (e degli elettori) ha preso il largo. Baluardo di una spinta anti-sistema esaurita da quando il M5S è diventato sistema, Di Battista ha comunicato di farsi da parte subito dopo il voto su Rousseau con cui il 59% degli iscritti ha detto sì al governo Draghi. «Vogliono sistemizzare il Movimento», l’accusa. Rimpianto di una rabbia evaporata.

Di Battista lascia M5S: non digerisco governo con questi partiti

Dietro la scelta di Dibba, come lo chiamano i compagni di strada, c’è il tentativo di preservare il nocciolo duro dai contraccolpi della scelta governista ed europeista suggellata dal disco verde a Draghi. Un nocciolo duro che non era né l’una né soprattutto l’altra cosa. Perché quasi soltanto nella frattura tra l’europeismo e l’antieuropeismo è rintracciabile il vero discrimine incendiario nel confuso pantheon politico di Di Battista.

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Figlio di Vittorio, orgogliosamente nostalgico del fascismo (il busto di Mussolini in casa è ormai elemento costante di ogni narrazione che lo riguardi), Dibba è in realtà la perfetta incarnazione di un’epoca dalla mitologia confusa, e per questo tanto popolare: emblema di una generazione globalizzata e precaria che è riuscita a tenere insieme la fascinazione per Che Guevara con il catechismo in parrocchia, la cooperazione in Sudamerica con la difesa di Trump, il tifo per l’istinto distruttivo dei gilet gialli con la fiducia nella Cina e nella Russia.

Di Battista ha dato il suo placet entusiasta al governo gialloverde dopo il trionfo alle urne nel 2018, quando aveva scelto di restare fuori dall’agone, dal Parlamento e dal governo per dedicarsi a suo figlio appena nato e ai suoi amati viaggi (una scelta controcorrente, un merito di cui bisogna dargli atto se comparato alla fame di potere di tanti suoi colleghi). L’abbraccio con la Lega nasceva proprio dal comune antieuropeismo, dall’astio per l’Europa percepita come matrigna e austera, per la moneta unica, per il fiscal compact. Il fuoco su cui il Movimento ha soffiato per crescere. «L’euro è una zavorra di cui l’Italia deve liberarsi al più presto», tuonava da deputato nel 2015. «Lontani dal nazismo centrale Nord-europeo che produrrà sempre più schiavi» perché «vogliono colonizzare il Sud Europa». Un anno dopo lanciava il «referendum sull’euro», leggendaria bandiera pentastellata prontamente ammainata una volta al governo.

A Natale 2018, terminati i suoi sei mesi di tour tra Guatemala, Messico, Nicaragua, Panama, Belize e Usa, il ritorno di Di Battista in patria era atteso con timore da chi credeva che avrebbe scalato il Movimento e con entusiasmo da chi pensava potesse essere l’unico a frenare la subalternità a Matteo Salvini. Subalternità certificata dai numeri alle europee del 2019: in un anno di governo con il M5S, la Lega ha raddoppiato i consensi, il Movimento ha dilapidato sei milioni di voti. A inizio 2020 Di Battista è però ripartito di nuovo, stavolta per l’Iran, tra l’imbarazzo dei colleghi al governo. Al rientro, nuova ridda di ipotesi - stavolta fondate - sulla sua volontà di correre per la leadership del M5S. Prova ne sia la sua contrarietà all’archiviazione del capo politico in favore dell’organo collegiale che poi gli stati generali, lo scorso dicembre, hanno approvato.

Nel rapporto tra Di Battista e Luigi Di Maio è apparso sempre più evidente negli anni il “doppio gioco” del Movimento: amici-nemici, funzionali per continuare a parlare a due mondi difficilissimi da tenere insieme. L’uno in grisaglia ministeriale, l’altro zaino in spalla. L’uno attento a coltivare i rapporti con le lobby, le cancellerie, il Vaticano, l’altro pronto a sparare a zero contro «i poteri forti» e le multinazionali. L’uno frontman del Movimento di governo (con qualche sbandata ogni tanto, come la foto con Dibba a Strasburgo in difesa dei gilet gialli), l’altro instancabile animatore del Movimento di piazza.

Il vento, anche mondiale, è cambiato. La pandemia ha fatto brillare l’Europa di un’altra luce. Ha vinto Di Maio, oggi si può dire. Già nel passaggio al governo giallorosso Di Battista è rimasto in disparte, leader extraparlamentare della minoranza interna, a masticare amaro insieme a Davide Casaleggio (il padre Gianroberto aveva detto «mai con il Pd», tutti avevano giurato «mai con il partito di Bibbiano», per non parlare dell’odio pentastellato verso Matteo Renzi) e ai “delusi”, quelli che poi sarebbero stati individuati come i «duri e puri», i «dibbattistiani»: ex ministri rimasti a bocca asciutta come Barbara Lezzi (e Danilo Toninelli, che però adesso sembra folgorato sulla via di Giuseppe Conte), no-Mes come Elio Lannutti, Pino Cabras, Alvise Maniero, Raphael Raduzzi. La pattuglia che ora, dopo la conversione definitiva all’europeismo benedetta da Beppe Grillo e sancita dal via libera a sostenere Mario Draghi, potrebbero lasciare il Movimento.

Ma sarà davvero così? Il tono delle parole con cui di Di Battista ha annunciato in diretta Facebook il passo di lato non è quello di chi vuole alimentare una scissione e fondare qualcos’altro. Assomiglia più a quello di un innamorato tradito, in tasca soltanto l’arma spuntata di essere l’unico a non aver espletato il secondo mandato, che si mette alla finestra dopo «una bellissima storia d’amore» in attesa che l’infatuazione della donna amata (fuor di metafora: per il banchiere Draghi, per Forza Italia e Berlusconi) si riveli un fallimento. «Le decisioni si devono rispettare ma si possono anche accettare. Però la mia coscienza politica non ce la fa a digerirle. Da ora in poi non parlerò più a nome del Movimento 5 Stelle, perché in questo momento il M5s non parla a nome mio. E dunque non posso fare altro che farmi da parte». E ancora: «Se un domani la mia strada dovesse incrociarsi di nuovo con quella del M5S, vedremo. Dipenderà esclusivamente da idee politiche, atteggiamenti e prese di posizioni. Non da candidature e possibili ruoli».

Sono queste parole a far dire a un big che lo conosce bene: «Alessandro ci ha abituato a tanti addii. A me sembra l’ennesimo arrivederci». Forse è la speranza, coltivata anche da Casaleggio, di non seppellire del tutto il Movimento slime, quello capace di adattarsi a ogni tempo, a ogni schieramento, a ogni convenienza. La chiamavano post-ideologia.

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