dopo la vittoria del sì al referendum

Di Maio si riprende la scena, ma il M5S non può più vivere di sola antipolitica

Occhi puntati sugli Stati generali e sulla nuova leadership, in cerca di un’agenda che possa ridare slancio e fermare la balcanizzazione

di Manuela Perrone

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3' di lettura

Tutto secondo copione: il M5S incassa il Sì al referendum sul taglio dei parlamentari. Abbastanza per restare in piedi cantando vittoria e per oscurare la marginalità sui territori sancita ancora una volta dalle regionali, ma davvero sufficiente a garantire al Movimento un futuro politico? Per analizzare l’esito della consultazione di ieri e oggi bisogna distinguere due piani: quello interno al “non partito” sognato da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, ormai balcanizzato e preda di lotte intestine, e quello esterno, che riguarda il ruolo dei Cinque Stelle nell’Italia di oggi.

Il ritorno di Luigi Di Maio

Sul primo fronte, interno, il successo del Sì - seppure meno plebiscitario di quanto immaginato, fenomeno che lascia intravedere il lento tramonto del populismo anti-casta su cui il M5S ha costruito la sua fortuna - è tutta acqua al mulino di Luigi Di Maio. Il ministro degli Esteri ed ex capo politico ha scelto il referendum per riprendersi la scena, scommettendo sull’unica carta vincente a disposizione del Movimento. Si è speso in un tour per il Paese come nessun altro e ha saputo accostare con furbizia al piano istituzionale in cui si muove da titolare della Farnesina, con i contatti nazionali e internazionali che ne derivano, il ritorno all’abbraccio delle masse. Proprio il calore popolare, finora considerato appannaggio dell’antagonista (più del governo giallorosso che di Di Maio) Alessandro Di Battista, è quel che serviva al ministro per riconquistare centralità tra i Cinque Stelle.

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La corsa per la leadership, il caso Appendino

Come Di Maio spenderà questa ritrovata rilevanza è facile dedurlo dalle sue ultime mosse. Chiederà subito la convocazione degli Stati generali, ma prima ancora una consultazione online esclusivamente sulla forma della leadership che il M5S dovrà assumere. Ha già reso nota la sua preferenza per una sorta di segreteria collegiale, che raduni tutti i big, ovvero i punti di riferimento delle varie correnti: Paola Taverna, forse Roberto Fico o comunque un suo fedelissimo, lo stesso Vito Crimi, Stefano Buffagni come voce del Nord, persino Alessandro Di Battista se vorrà starci. Avrebbe dovuto entrarci anche Chiara Appendino in rappresentanza degli amministratori locali, ma proprio oggi è stata condannata per falso in atto pubblico dal tribunale di Torino e ha annunciato che si autosospenderà dal Movimento. La novità successiva potrebbe essere la scelta, all’interno di questo organo, di un primus inter pares: in quel caso Di Maio correrebbe sospinto proprio dal vento in poppa del successo del referendum. Preceduto da un nuovo patto di fedeltà al premier Giuseppe Conte, suggellato dalla photo opportunity a tre con Beppe Grillo. Ma anche, meno scontatamente, dalla garanzia di un’uscita di scena onorevole per Davide Casaleggio, sempre più inviso ai gruppi parlamentari ma per niente disponibile a lasciare del tutto la gestione della piattaforma Rousseau.

L’incognita dei parlamentari

Ecco, i parlamentari. Sono loro la vera incognita. E qui l’architettura del Movimento che verrà si salda con la partita che si gioca all’esterno, quella del Governo. Perché la stabilizzazione del corpaccione dei circa 300 eletti pentastellati, funestato da emorragie, disobbedienze e dimostrazioni di forza di varia natura (anche nei confronti del premier Conte, come ha provato la vicenda dell’emendamento sui vertici dei servizi segreti), è indispensabile per la sopravvivenza e la navigazione meno agitata dell’Esecutivo. Una stabilizzazione che nemmeno Di Maio, memore dell’esperienza passata, può essere certo di garantire. E che un eventuale rimpasto potrebbe rendere più difficile, anziché facilitarla. Soprattutto se il Pd, ansioso di passare all’incasso dopo la vittoria in solitaria in Puglia e in Toscana, dovesse inchiodare il M5S sui suoi tabù, a partire da Mes e decreti sicurezza. E se la convivenza con i renziani di Italia Viva, i più distanti su tanti nodi di politica economica, a partire da reddito di cittadinanza e quota 100, dovesse riprendere a farsi ardua.

La difficile ricerca di una nuova agenda

Il problema per il M5S è anche la perdita di mordente legata all’affievolimento, quando non all’abbandono, delle battaglie bandiera. I numeri del referendum sono stati la riprova del fatto che le vecchie parole d’ordine contro il “sistema” funzionano ancora, ma a scartamento ridotto. Pure per una questione di credibilità: come si fa a gridare contro i privilegi quando si gode di stipendi elevatissimi, scorte, auto blu, staff consistenti e costosi esattamente come i politici che un tempo si combattevano? Risulta evidente che al Movimento - soprattutto in vista del percorso per il Recovery Fund, in un’Italia piagata dalla crisi da Covid-19 - occorre non soltanto un rinnovamento di governance, necessaria per darsi finalmente un’organizzazione più strutturata sul territorio, ma anche un’agenda che vada oltre la lotta già annunciata da Di Maio per il taglio agli stipendi dei parlamentari o il no al Mes, che a breve potrebbe essere peraltro rimesso in discussione. Serve in sintesi un tagliando all’identità. Che era già liquida (e perciò molto disinvolta), ma che adesso rischia il passaggio allo stato gassoso: l’evaporazione. Insieme ai consensi.

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