Diasorin, l’ad Carlo Rosa: la diagnostica è strategica per battere l’antibiotico resistenza
Nel post Covid, la società che supera 1,3 miliardi di euro di fatturato punta su Stati Uniti e Cina, dove nel 2024 sarà operativo un nuovo stabilimento
di Cristina Casadei
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«Nella diagnostica, l’America è il mercato di riferimento, la Cina è il prossimo grande mercato. Bisogna esserci», sostiene Carlo Rosa, l’amministratore delegato di DiaSorin, la multinazionale italiana del settore che si sta espandendo in entrambi. Da poco ha digerito la più grande acquisizione nel settore medicale di un’azienda italiana sul mercato americano, Luminex, per 1,8 miliardi di dollari, e dal 2024 avvierà la produzione nello stabilimento appena ultimato in Cina, dove ha investito 40 milioni di euro. Quando parliamo con Carlo Rosa si è da poche ore diffusa la previsione dell’esperto cinese Zhong Nanshan secondo cui in Cina c’è un aumento dei casi di infezioni da Covid che fa prevedere entro la fine di maggio circa 40 milioni di casi alla settimana, con un picco di 65 milioni entro la fine di giugno.
Dottor Rosa, nella geografia della diagnostica qual è il peso dei diversi paesi e quali dinamiche state affrontando, dopo che per tutto il periodo Covid e post Covid siete stati sugli scudi?
Fin dall’inizio, la Cina ha deciso di affrontare la pandemia in totale autonomia: non ha approvato un solo prodotto occidentale. Il mercato cinese per le società occidentali non è stato un’opportunità di sviluppo e oggi la sommatoria tra Fortress America e tensione geopolitica ha fatto sì che un progetto che si chiamava China Medtech, che si proponeva di produrre il 50% del Medtech nel paese, abbia subito una forte accelerazione e che quello che in futuro ha le potenzialità per essere il più grande mercato sia oggi più chiuso del 2019.
La Cina è nelle direttrici della vostra crescita? Come state investendo nel paese?
In Cina la strategia è localizzare, anche perseguendo la direzione del governo cinese che prevede la produzione in Cina dei prodotti per il mercato locale. Nel 2019 abbiamo iniziato la costruzione di uno stabilimento in cui abbiamo investito 40 milioni di euro e che sarà operativo dal prossimo anno, con una joint venture in cui c’è anche il Governo come socio. Nel 2024 entrerà in produzione e faremo 2 linee di prodotti per la diagnostica oncologica e per le disfunzioni della tiroide.
Che peso ha la presenza del Governo cinese nella joint venture?
È un socio di minoranza ma è molto importante perché ci permette di leggere bene gli sviluppi di un mercato che è una grande opportunità: il paese oggi investe il 4% del Pil in assistenza sanitaria, ma c’è una fetta di popolazione enorme che deve accedervi e la spesa sanitaria cresce del 15% all’anno. Entro i prossimi 10 anni la Cina diventerà il più grande mercato per la diagnostica per cui bisogna esserci, producendo e sviluppando prodotti in Cina, in un’azienda considerata di valore strategico per la Cina.
Entrare nel mercato americano per un’azienda italiana è una grande sfida, soprattutto in ambito scientifico e tecnologico, dato il primato che ha il paese. Quale ruolo hanno gli Stati Uniti nella diagnostica e nella vostra crescita?
Il mercato americano della diagnostica vale il 40% del mercato mondiale. Gli Stati Uniti spendono il 16% del Pil sul sistema sanitario. La media Ocse è del 7-8%. La Cina spende il 4%, ma aumenta la spesa sanitaria del 15% all’anno. Se riflettiamo su che cosa ci ha lasciato il Covid sicuramente dobbiamo parlare di un’accelerazione dell’indipendenza tecnologica della Cina. Dal punto di vista dell’Europa ha lasciato poco: non essendoci di fatto una politica sanitaria europea è stato tutto delegato ai paesi, la pandemia ha esacerbato una situazione di criticità dei vari sistemi sanitari, una risoluzione strutturale dei problemi non c’è stata. Negli Stati Uniti, invece, la Barda (Biomedical advanced research and development authority) che è responsabile delle tecnologie innovative, ha messo a disposizione 20 miliardi di dollari per sostenerne lo sviluppo, da usare a valle di questa pandemia per affrontare la prossima. La strategia è avere la capacità di fare i test in maniera periferica senza dover andare in ospedale. Noi siamo stati selezionati come una società strategica, abbiamo ricevuto un funding di 30 milioni di dollari che vanno a sostenere lo sviluppo di un nuovo sistema diagnostico per fare tamponi molecolari in 15 minuti su cui abbiamo investito 100 milioni.
Viviamo in una fase in cui la farmaceutica ha dovuto affrontare il tema della carenza di alcuni antibiotici nel nostro paese, ma non solo. Quello dell’abuso di antibiotici e della loro conseguente perdita di efficacia è un grande tema per i sistemi sanitari globali. La diagnostica come può aiutare?
Arrivo da Linate, dove uscendo dall’aeroporto mi sono imbattuto in un enorme cartellone che racconta virus e batteri sotto forma di personaggi di un cartone animato e trasferisce in una maniera molto divulgativa uno dei grandi temi del futuro, l’antibiotico resistenza su cui le società di diagnostica possono aiutare molto i sistemi sanitari. Con MeMed noi abbiamo collaborato a creare un test che in 20 minuti capisce se un paziente che si presenta con un’infezione delle vie respiratorie ha un problema virale, nel qual caso non serve l’antibiotico, o batterico, nel qual caso serve. Oggi c’è un uso smodato di antibiotico: tra Europa e Stati Uniti ci sono 80mila morti dovuti ad antibiotico resistenza. In Europa ci sono 30mila morti, di cui 11mila sono in Italia e questo è il frutto di decenni in cui l’antibiotico veniva dato senza grandi controlli. Le previsioni dell’Oms di qui al 2050 sono di 10 milioni di morti all’anno nel mondo per questa causa, con una progressione esponenziale. La scommessa, quello che bisogna fare, è essere molto rapidamente in grado di stabilire se l’infezione è batterica o virale.
Che cosa ci sarebbe da “importare” dal mercato americano?
Gli Stati Uniti sono il mercato più importante, quello che paga meglio grazie a una struttura di prezzi elevata che ha un forte peso sulla redditività, valorizza molto l’innovazione e ha un percorso di approvazione chiaro e veloce. Questo fa si che il mercato americano sia di grande appeal. Ma è un mercato difficile perché è molto frammentato: in America ci sono 7mila ospedali (in Italia sono 700), dove tutti i grandi della diagnostica giocano la loro partita. Noi siamo in America da 30 anni, ma per essere competitivi dovevamo avere una presenza diversa, arrivata con l’acquisizione di Luminex. Oggi oltre metà del fatturato di Diasorin è negli Stati Uniti (nel 2022 è stato di 1,3 miliardi miliardi in crescita del 10% sul 2021, con un Ebit di 417 milioni di euro), così come gli addetti che lavorano nei 6 siti produttivi negli Stati Uniti sono la metà dei 3.300 totali. È una geografia rilevante, il resto del fatturato è distribuito tra Europa e Cina.
In Italia manterrete un presidio strategico sulla ricerca?
La ricerca si divide tra un centro a Austin, specializzato nelle tecnologie di ricerca di base che noi forniamo alle grandi società farmaceutiche e alle società biotech, e l’Italia con i due centri di Milano e Saluggia dove operano 100 ricercatori impegnati nello sviluppo di tecnologie molecolari.
Come procede il processo di integrazione di Luminex?
Possiamo considerarlo completato. Abbiamo messo insieme un nuovo gruppo di management che gestisce la società negli Stati Uniti e stiamo facendo investimenti per preparare un nuovo sito che servirà il mercato americano con prodotti di diagnostica molecolare. L’integrazione ci ha richiesto grandi sforzi, ma non ci ha lasciato tensioni finanziarie. Abbiamo una posizione finanziaria tranquilla e la forza e la stabilità per poter perseguire i nostri interessi strategici: da sempre noi siamo orientati verso l’innovazione di prodotto e di tecnologia.
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