made in italy

Dimenticare in fretta l’amaro calice

Le ripercussioni dell'emergenza coronavirus, dopo le difficoltà provocate sia dalla politica di Donald Trump sui dazi sia dalla Brexit. È una concomitanza di fattori che può trasformare il 2020 nell’annus horribilis del vino Made in Italy. Le nostre aziende fanno i conti con la crisi e cercano di prefigurare gli scenari futuri. Partendo dal mercato cinese, che inizia a dare segnali di ripresa

di Fernanda Roggero

La cantina Antinori nel Chianti classico in Toscana (credits Pietro Savorelli)

7' di lettura

Come nella fosca sceneggiatura di un film immaginato in un futuro distopico, sembra di vivere in un costante e irreale fermo immagine. La pandemia mondiale ha ridisegnato abitudini e rapporti sociali. Cosi come la geografia dei consumi, azzerando previsioni e strategie. Anche per il mondo del vino – e come potrebbe essere diversamente? – questo sarà un annus horribilis. Ma, come sempre, in fondo al tunnel c’è la luce. E oggi si accende (o meglio, promana i primi, deboli bagliori) proprio dove tutto ha avuto inizio. In quello che da anni si immagina come il prossimo Eldorado dell'export e che, annichilito dall'emergenza sanitaria, sulla Via della Seta ha fatto viaggiare virus anziché merci preziose.

La Cina rialza la testa e riapre negozi, bar, ristoranti. Si riprende a vivere. E a consumare. Ma la risalita sarà lenta. «Non sono Nostradamus, non posso fare previsioni precise». Mette le mani avanti Stevie Kim, managing director di Vinitaly International, che da anni insegna ai cinesi (ma anche ai russi e agli americani) la straordinaria ricchezza dei vini italiani. Con il pragmatismo che solo una newyorkese di origini coreane può sfoderare, non si nasconde che questa situazione eccezionale mette a dura prova anche il migliore degli analisti.

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La grande fiera di Verona quest'anno non ci sarà: «Noi comunque procediamo con la nostra Academy», rassicura, «continuiamo a creare ambasciatori del vino italiano che a loro volta siano in grado di “gemmare” nuovi corsi e allargare la platea degli esperti». A oggi sono già più di 60 gli Italian Wine Ambassador in Cina (230 nel mondo). «L'education è essenziale», spiega Kim, «soprattutto per il vino italiano, eccessivamente frammentato. Ci manca massa critica, la nostra quota di mercato resta ancorata al 6 per cento, e soprattutto ci manca un brand forte, di grande riconoscibilità. Si è molto parlato dello storico sorpasso dei vini australiani su quelli francesi in Cina, ma il 60 per cento delle etichette australiane acquistate dai cinesi è prodotto da un unico grande marchio, Penfolds».

«Per gli acquirenti cinesi il consumo è anche questione di immagine, e dunque un brand forte è essenziale», conferma Giovanni Geddes da Filicaja, ad di Ornellaia, la cantina-icona del gruppo Frescobaldi. Il vino di riferimento dell'azienda, il Masseto, ha conquistato riconoscibilità, «forte anche del fatto che in Cina è distribuito attraverso negociants francesi: abbiamo fatto un accordo nel 2006 tenendo conto della loro storica forza sul mercato». Negli ultimi dodici anni, ricorda l'amministratore delegato di Ornellaia, la Cina è diventata il maggior mercato per il Bordeaux, che vi riversa circa il 40 per cento della propria produzione. Il gruppo toscano è presente anche con i vini Frescobaldi e il fatturato Asia-Pacifico vale circa 10 milioni di euro.

L'effetto Coronavirus nei primi mesi dell'anno è stato devastante, concordano tutti i produttori. Città fantasma, locali chiusi, vita sociale azzerata. «Il mercato si è fermato» sentenzia Andrea Sartori, che con i suoi rossi veneti fattura in Cina un milione di euro. Sono state cancellate importanti fiere vinicole come quella di Chengdu, rinviata a data da destinarsi, e le manifestazioni del prossimo autunno sono in stand-by. «Si hanno ancora notizie di molti container fermi a Shanghai e Hong Kong», fa eco Sandro Boscaini, il “re” dell'Amarone, patron di Masi Agricola, casa vinicola della Valpolicella quotata in Borsa. «Fino all'anno scorso», aggiunge Geddes, «i vini di maggior prestigio passavano tutti da Hong Hong. Oggi anche l'ex-città Stato è in forte crisi, dopo mesi di disordini e rivolte: molti degli oltre 1.100 negozi monomarca del lusso rischiano di chiudere».

Tutto questo si somma a problematiche storiche del mercato cinese. «Non è mai stato uno scenario stabile», afferma Sartori, «molti distributori dopo un anno abbandonano, è difficile crearsi un percorso solido. Noi ci abbiamo sempre creduto e abbiamo la fortuna di avere un vino, l'Amarone, che ai cinesi piace: ha un profilo organolettico adatto ai loro gusti, perché prediligono i rossi con alte gradazioni, colore, corpo, rotondità». Anche se i prossimi mesi non saranno facili, l'importante è non mollare, dice Sartori: «In via cautelativa, io ho comunque già abbattuto del 70 per cento il mio budget previsionale per quel mercato».

Chi continua a crederci sono i produttori di bollicine italiane. «L'anno scorso abbiamo avviato un progetto rilevante», conferma Silvano Brescianini, presidente del Consorzio Franciacorta, «ed è in corso di registrazione la traslitterazione in mandarino del marchio Franciacorta». Per il metodo classico bresciano (quasi 18 milioni di bottiglie, con un giro d'affari di 376 milioni di euro) i margini di crescita sono ampi, perché attualmente l'86 per cento del fatturato viene dal consumo nazionale.

Dalla Cina agli Usa. Tramortiti dall'arrivo dell'epidemia Coronavirus, gli Stati Uniti hanno serrato i ranghi e chiuso a tutti. Il danno per il mondo del vino italiano è potenzialmente letale. L'America è il mercato di elezione per l'export delle nostre etichette, che hanno visto una crescita costante negli ultimi anni e nel 2019 hanno fatturato negli States oltre 1,5 miliardi di euro. Ma anche quando cesserà l'allarme virus, non tutte le nubi si dipaneranno.

Da mesi, infatti, sul nostro vino incombe la minaccia di nuovi balzelli. L'amministrazione Trump nell'ottobre scorso ha imposto una serie di dazi compensativi in relazione a una querelle che nulla a che fare con l'universo food&wine. In ritorsione agli aiuti europei ad Airbus, Trump ha imposto tariffe del 25 per cento su una serie di prodotti, tra cui il nostro parmigiano reggiano e i nostri liquori e aperitivi. Limoncelli e amari stanno soffrendo enormemente (le aziende del comparto prevedono cali del fatturato dell'ordine del 35 per cento), ma i vini per il momento sono salvi. La mannaia del dazio aggiuntivo è calata sulle etichette francesi e spagnole, ma non sulle nostre.

Purtroppo, però, la complessa procedura seguita alle decisioni del Wto dopo il riconoscimento del danno agli Usa prevede possibili revisioni della percentuale del dazio e dell'elenco di prodotti soggetti ogni sei mesi. È il famoso “carosello” che ha tenuto con il fiato sospeso i produttori il 14 febbraio. San Valentino ha portato bene alle etichette Made in Italy, ancora una volta salve, ma si replica in agosto. Che cosa deciderà allora Trump?

«La questione dazi è solo rimandata», rileva Brescianini: «Per ora in Nord America non ci sono problemi, ma restano grossi punti di domanda». «È un mercato troppo importante», sottolinea Boscaini. Masi ha deciso di scommetterci ulteriormente, stringendo un accordo di distribuzione con il branch statunitense di Santa Margherita, altro storico marchio veneto: «Vogliamo creare in America un polo del vino di qualità del Nord-Est». E lo storytelling sembra essenziale per un consumatore smaliziato e attratto dal Made in Italy (anche) nel bicchiere. Racconta SimonPietro Felice, direttore generale di Caviro: «Il Chianti delle nostre Cantine Leonardo da Vinci è il secondo più venduto negli Usa. Per i 500 anni dalla morte del grande genio, abbiamo deciso di far conoscere anche il Leonardo enologo, recuperando i suoi studi sull'argomento. Aveva sviluppato un vero e proprio metodo, dal campo alle modalità di consumo, per esempio consigliando il rosso a pranzo e non a cena».

Infine, rimangono da analizzare le conseguenze di un altro fenomeno che oggi ci appare lontano nel tempo: Brexit. Anche in Europa, purtroppo, il blocco da Coronavirus non è l’unica incognita sul futuro del vino. A Londra la nebbia è sparita da un bel po’, ma il futuro del mercato dopo il divorzio da Bruxelles è decisamente f oggy. E anche le previsioni sono nebulose e tutt'altro che univoche. «Non abbiamo paura della Brexit», afferma Felice dal punto di osservazione di una grande realtà cooperativa che fattura 330 milioni di euro producendo 150 milioni di brick e 60 milioni di bottiglie. «Per ora non è cambiato nulla, e non credo si modificherà granché. Il vino è già tassato con una accisa alta, 1,20 sterline a bottiglia, che va a sostenere l'appannaggio della Regina…».

Il dubbio che serpeggia, tuttavia, è principalmente sulla tenuta del vero best-seller degli ultimi anni, il Prosecco. Un campione a livello mondiale le cui vendite all'estero hanno superato 1,5 miliardi di euro, arrivando a pesare per un quarto sul totale dell'export vitivinicolo italiano. Nel 2019 gli inglesi ne hanno acquistato 115,4 milioni di bottiglie (+7 per cento). Che cosa riserva il futuro?

Brexit può e deve essere l'occasione per un salto di qualità secondo Matteo Lunelli, ceo di Cantine Ferrari (79 milioni di euro di fatturato e un palmares invidiabile di premi internazionali) che ha in portafoglio Bisol, storico produttore di Valdobbiadene con 4,3 milioni di bottiglie di Prosecco. «Per Bisol il Regno Unito è il primo mercato e già da tempo lavoriamo al riposizionamento nella fascia premium». Il vero problema del Prosecco, per Lunelli, è la sua riduzione «a commodity, mentre nel caso del Prosecco Superiore siamo di fronte a un vino espressione di un territorio unico, patrimonio Unesco, in molti casi frutto di una viticoltura eroica, che merita di collocarsi nella fascia dei fine wines». È un percorso lungo, naturalmente, ma necessario. Il peggior rischio, avverte Lunelli, è che l'eventuale imposizione di dazi spinga i produttori a mortificare ulteriormente i prezzi.

Rischio Brexit, rischio dazi Usa, certezza Coronavirus. Tre sfide enormi che, comunque, il vino italiano più fronteggiare. Un'iniezione di fiducia era arrivata dalla conferma del Vinitaly, la grande fiera del vino di Verona, che aveva spostato le proprie date da aprile a metà giugno. Un'opportunità per il mondo del vino italiano di mostrarsi al mondo compatto, secondo Boscaini: «Mai come oggi abbiamo bisogno di fare squadra». Poi, alla fine, anche Vinitaly ha dovuto arrendersi al precipitare della situazione e dare appuntamento al 2021. Il lavoro per trasformarlo nell'anno del riscatto sta per iniziare.

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