Dimmi con chi lavori e ti dirò chi sei: i molti problemi della solitudine
la qualità delle nostre azioni può fare la differenza, ma dipende da come il nostro agire si integra con quello dei nostri compagni di squadra
di Lorenzo Cavalieri *
5' di lettura
Ricordo come fosse ieri la raccomandazione di mio nonno al primo giorno di quinta elementare: “Mi raccomando siediti a fianco al migliore della classe”. Un consiglio che mi sembrò banale ma che invece nascondeva tanta saggezza. Molti anni dopo sul lavoro ho ritrovato lo stesso concetto durante una riunione, espresso con una frase attribuita a Confucio: “Se sei la persona più intelligente nella stanza, sei senz’altro nella stanza sbagliata”. In letteratura abbondano gli studi che dimostrano quanto l’ecosistema di relazioni in cui si è immersi influenzi il rendimento delle persone, a scuola, sul lavoro, nel mondo artistico e in quello sportivo.
Essere in contatto con persone in gamba e stimolanti è fondamentale: impari prima e di più, vieni sfidato a competere, entri in contatto con buone idee (il che ti aiuta a generarne di tue), conosci i futuri soci della tua futura impresa. L’elenco delle conseguenze benefiche dello stare “vicino ai primi della classe” potrebbe continuare per ore. Per molto tempo questa consapevolezza è stata appannaggio dei manager in carriera, dei grandi professionisti e dei grandi accademici, mentre il resto del mondo del lavoro nel suo complesso poteva restare estraneo a questa logica del “stai vicino a chi è migliore di te”.
Dove c’era posto fisso e poca competizione, dove la carriera si faceva per “scatti di anzianità” non c’erano incentivi sufficienti a cercare il confronto con i campioni. Ritrovarsi a collaborare o interagire con colleghi superbravi infatti faceva la differenza, ma solo fino a un certo punto. Si poteva essere un impiegato, un operaio, un professionista di successo indipendentemente dalla qualità delle proprie connessioni lavorative. Oggi nel mondo della competizione globale, della rivoluzione digitale e dell’innovazione continua (bisogna imparare qualcosa tutti i giorni) il nostro lavoro è sempre meno esecuzione e sempre più contributo creativo e specialistico, in contesti complessi e volatili.
In questo scenario la qualità del nostro lavoro può fare la differenza, ma dipende fortissimamente da come il nostro lavoro si integra con quello dei nostri compagni di squadra. Il nostro valore è sempre più legato a quanto sono in gamba, competenti, motivate, appassionate, creative le persone con cui interagiamo. Non parlo necessariamente di colleghi, Si può fare squadra anche con clienti e fornitori. L’importante è che si tratti di collaborazioni strutturate, di un vero “fare squadra”.
È molto facile riconoscere questa dinamica nella nostra quotidianità lavorativa. Più difficile invece è soppesarla in modo corretto quando dobbiamo prendere decisioni importanti per la nostra carriera. In particolare vanno analizzate tre situazioni:
1) Quando decidiamo di cambiare lavoro. Le domande che ci poniamo quando valutiamo di cambiare lavoro sono solitamente “quanto guadagnerò”, “che responsabilità avrò”, “quanto mi appassiona la sfida”. Di solito siamo disposti a cedere su uno dei tre criteri se gli altri due ci offrono risposte più che soddisfacenti. Certamente valutiamo anche la qualità delle persone che ci circonda attualmente e che ci circonderebbe nel nuovo lavoro. Tuttavia questo criterio è spesso considerato secondario e non dovrebbe esserlo. Dovrebbe valere almeno quanto i primi tre appena citati. Un lavoro che ci appare il più bello del mondo se prevede una compagnia non particolarmente stimolante cessa ipso facto di essere il più bello del mondo. La valutazione del profilo dei nostri futuri colleghi (ma anche di quelli attuali che spesso sottovalutiamo) deve essere particolarmente approfondita durante le transizioni di carriera. Proviamo a conoscerli bene prima di decidere, o quantomeno proviamo ad approfondire i loro curriculum.
2) Quando valutiamo un passaggio a forme radicali di smart working. Già oggi per molti di noi lavorare da remoto sempre o quasi sempre è un’opzione praticabile. Vivere in Italia e lavorare all’estero è già una realtà. Sulle conseguenze di questo schema sono stati versati nell’ultimo anno oceani di inchiostro. Personalmente ritengo che se è vero quello che sto affermando in questo articolo, allora il remote working sia un’opzione da prendere con le pinze. La collaborazione da remoto infatti non è una piena collaborazione. La vita non è una videoconferenza. La videoconferenza serve a trasmetterci informazioni e a discutere. Collaborare però non significa semplicemente trasmettersi informazioni e discutere. Significa materialmente passare del tempo insieme, nello stesso luogo, con la testa sullo stesso problema. Lo abbiamo sperimentato in azienda. Ce lo hanno raccontato i docenti e i ragazzi reduci da un anno di DAD.
3) Quando valutiamo di metterci in proprio. Un terzo circa del lavoro USA è composto da free lance. Una tendenza in crescita in tutte le economie sviluppate, Italia compresa, ovviamente. Al di là del fenomeno italiano del cosiddetto “falso lavoro autonomo” il numero di persone che lavorano con la partita IVA è destinato a crescere. Alcuni sono lavoratori integrati in organizzazioni più ampie. Molti altri invece sono free lance letteralmente “soli”, “artigiani” gelosi della loro solitudine, che lavorano in autonomia su commesse magari molto specialistiche, ma anche molto simili l’una con l’altra, tanto da essere gestite più o meno sempre allo stesso modo, a prescindere dal cliente. Chi sta progettando questo tipo di futuro lavorativo consideri attentamente che per quanto siano rare e preziose le proprie competenze, la solitudine le fa invecchiare in fretta.
In definitiva ci dobbiamo convincere che il nostro percorso lavorativo assomiglierà sempre di più al percorso di uno sportivo. Che sia uno sport individuale o uno sport di squadra, l’ecosistema con cui ti confronti cambierà da subito il livello della tua performance. Attenzione a non confondere la raccomandazione di Confucio da cui siamo partiti con un banale invito a dedicarsi al cosiddetto networking. Partecipare ad eventi aziendali per scambiare esperienze e biglietti da visita oppure collezionare follower e interazioni su LinkedIn sono attività utili, ma che non hanno nulla a che fare con il crescere professionalmente attraverso la contaminazione con gli altri.
I benefici dell’interazione con i colleghi arrivano lavorando sugli stessi progetti, non in modo occasionale, ma sistematico. Giocare a tennis con il brillantissimo vecchio amico dell’Università può servire a lucrare qualche opportunità in più, ma non ci rende più bravi. Per diventare più bravi dovremmo trovare il modo di lavorare gomito a gomito con quell’amico su un progetto.
Per questo motivo chi si trova in una posizione lavorativa tendente alla “solitudine” dovrebbe impegnarsi a procurarsi opportunità di condivisione progettuale con team qualificati e ingaggiati su sfide interessanti, anche se magari questo significa perdere un po’ di autonomia e/o vivere lo stress del confronto e dell’inadeguatezza. Parafrasiamo Confucio per concludere: “Vuoi sapere la verità sul tuo lavoro? Guardati intorno e descrivi i colleghi che ti circondano”.
* Managing director della società di formazione e consulenza Sparring
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