Dior sfila in un giardino e Officine Generale fa lo stesso, le sfilate cercano l’ambientazione bucolica
Il direttore creativo Kim Jones punta a creare un fil rouge con le atmosfere di campagna, Paul Smith torna alla bellezza dei colori, Junya Watanabe omaggia la pop art
di Angelo Flaccavento
2' di lettura
Nella varietà delle proposte, la moda parigina di questa stagione è tutta un idillio, ossia una ricerca di equilibrio e armonia dentro quadretti bucolici. Pensiero verde e ritorno alla natura, non sempre esattamente stringente in termini di sviluppo concettuale e relativa esecuzione. Dior (foto in alto) sfila ad esempio dentro un bellissimo giardino - Monsieur Dior ne aveva uno a Granville dove amava ritirarsi - ma costruisce un tendone all'interno del quale sta un giardino, finto, che è crasi tra la Granville della maison e Charleston Farm in Sussex, il cottage di Duncan Grant e del Bloomsbury Group. Il cortocircuito è evidente, ma lo storytelling cancella contraddizioni e salti quantici in nome del dialogo tra le radici francesi e la cultura britannica dell'attuale direttore creativo, Kim Jones. Il fatto è che, per quanto affascinante, il racconto della contiguità tra countryside e campagne è, appunto, solo un racconto: una cornice dentro la quale Jones esplora la mutevolezza meteorologica come modo per mescolare giardinaggio, outdoor, trekking e sartorialità, con un profluvio di stampe e jacquard scelto dagli archivi di Grant, pittore dal segno espressivo. Dopo la bella prova dello scorso gennaio, questa collezione, sospesa tra Patagonia deluxe, pezzi dal sapore utility e tailoring impeccabile e immateriale, appare come un esercizio di stile senza sbavature, ma non particolarmente accattivante. Al contrario, lo si direbbe un po' secco, nonostante il rigoglioso verdeggiare tutt'intorno.
Officine Generale sfila nei giardini del Musée des Archives Nationales, en plein air, ed è una gioia per spirito e occhi. La magnifica cornice esalta l'efficacia e la semplicità di abiti dallo chic affatto francese quanto immediato, che hanno determinato il successo di questo marchio, nato appena dieci anni fa ma in costante ascesa. C'è molta freschezza nella collezione di Paul Smith: colori sorbetto, volumi abbondanti e un'aria scanzonata nel mescolare il tutto, guardando allo stile degli artisti degli anni ottanta, i primi a flirtare in maniera attiva e consapevole con la moda dei designer, e a crearsi una immagine associandosi a questo o a quel marchio. Classico con twist è il forte del designer inglese: una ricetta che non diventa mai una formula standard. Junya Watanabe omaggia a suon di stampe Andy Warhol, Roy Lichtenstein, Keith Haring, Jean Michel Basquiat, ma anche Coca Cola e Netflix, in quella che pare essere una celebrazione della America dei consumi e del pop. Le forme sono archetipe, gli interventi artistici evidenti, e l'effetto è un po' gift shop del museo.Non c'è nulla di bucolico, e nemmeno di rassicurante, nel kitsch da festa di matrimonio di Acne Studios: uno sbrilluccichio di rasi e glitter, un frusciar di rasi, un vorticar di forme ora strette ora larghe, mai giuste e comunque un po' ubriache, che è riuscito quanto divertente. Rei Kawakubo di Comme des Garçons, infine, immagina una corte di giullari vestiti di marsine gonfiate, casacche e pantaloni con gli orli a punta e maschere da film horror. È horror pure la colonna sonora, ma il messaggio è tutto fuorché spaventevole: una celebrazione della libertà di parola - la stessa che avevano i fool- quanto mai necessaria in tempi di strisciante oscurantismo. Il sottotono punk, così, pare doppiamente tempestivo.
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