Mind The economy

Dire è pensare. La bizzarra e inattesa relazione tra linguaggio ed esperienza del mondo

La lingua ci orienta nel mondo e lingue differenti ci danno strumenti cognitivi differenti. E questo vale sia per un'esperienza molto concreta come la navigazione dello spazio, ma anche nei confronti di altre esperienze, altrettanto fondamentali ma più astratte, come il pensiero numerico

di Vittorio Pelligra

(Valletta Vittorio / AGF)

7' di lettura

«I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo», scriveva Ludwig Wittgenstein al punto 5.6 del suo Tractatus Logico Philosophicus.
Poco prima aveva affermato che: «La proposizione mostra la forma logica della realtà. L'esibisce» (4.121).
Il nesso tra mondo e linguaggio si pone al centro dell'opera principale di questo geniale personaggio, per alcuni il più grande filosofo del ‘900. Logico-matematico a Cambridge, maestro elementare nell'Austria rurale, eremita misticheggiante a Skjolden, in una casetta di legno persa nel gelo del fiordo norvegese di Lustrafjord.
Il rapporto tra mondo, logica e linguaggio
Il suo mondo è il suo linguaggio, il nostro mondo è il nostro linguaggio. Il rapporto tra mondo, logica e linguaggio rimarrà sempre centrale nel suo pensiero e in quello di molti dei suoi allievi.
Un'influenza particolare, queste posizioni, l'ebbero su Benjamin Whorf, linguista di Yale e grande studioso delle lingue bibliche e di quelle indigene dell'America centrale. Wittgenstein e Whorf erano entrambi ingegneri di formazione, ma presto, per vie differenti, cedettero al fascino del linguaggio, della sua relazione con la struttura del mondo.
Whorf si spinse fino a proporre l'ipotesi secondo cui le diverse strutture linguistiche influenzerebbero il modo in cui i parlanti percepiscono e concettualizzano la realtà.
Un caso interessante è quello della cognizione spaziale, del modo, cioè, in cui il cervello percepisce il nostro corpo e gli oggetti nello spazio circostante e ne codifica la posizione.
Per molti anni si era pensato che questo fosse un processo cognitivo basilare e universale, del tutto indipendente dalla cultura dei singoli e dal loro linguaggio. E invece no, la cultura ed il linguaggio c'entrano, eccome.

Per localizzare un oggetto nello spazio, magari con riferimento ad un altro oggetto possono essere utilizzati tre criteri linguistici o “cornici di riferimento” (frames of reference) principali: il criterio “relativo” è quello che a tutti noi (parlanti italiano) sembra più naturale. Se dobbiamo indicare dove si trova la forchetta, diciamo “sta a sinistra del piatto”.
Il criterio “assoluto”, invece, prevede l'utilizzo di un sistema di riferimento esterno, per esempio quello basato sui punti cardinali.
In questo caso si dirà che “la forchetta si trova a nord (o sud, est, ovest) del piatto” o, in altri casi “a valle (o a monte) del piatto”. Il criterio di localizzazione “intrinseco”, infine, non adotta né il corpo dell'osservatore, né un sistema esterno, come criterio di localizzazione, ma utilizza le relazioni tra gli oggetti stessi In questo caso, si direbbe, “la forchetta è a fianco al piatto”.
Il fatto sorprendente è che non tutte le lingue adottano questi tre criteri allo stesso modo. Ci sono lingue egocentriche che utilizzano principalmente il criterio relativo, quello che si basa sulle relazioni tra il mondo esterno e il soggetto osservatore, mentre i linguaggi allocentrici, invece, adottano principalmente il criterio assoluto e quello intrinseco. Non si tratta solo di un modo differente di esprimere la stessa cosa, ma di modi differenti di esprimere concetti differenti. Il linguaggio, come Whorf ipotizzava, influenza, infatti, la nostra cognizione.

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L’esperimento delle carte da gioco
Immaginate di essere seduti ad un tavolo; di fronte a voi una carta da gioco con disegnati due punti, uno grande bianco e, poco più sotto, uno piccolo e nero. Ora, dietro di voi è posto un secondo tavolo; poggiate sul piano, due carte simili, ma una in posizione identica a quella del primo tavolo ed un'altra messa sottosopra, con il punto nero sopra e quello bianco sotto. Immaginate, poi, di ruotare la sedia di centottanta gradi.
Ora vi trovate di fronte al secondo tavolo, quello con le due carte. Vi viene chiesto di scegliere, tra le due, la carta che si trova nella stessa posizione di quella che avete visto nel primo tavolo.
Quale scegliereste, quella con il punto nero sotto o quella con il punto nero sopra? L'esperimento mostra che la risposta dipenderà dalla lingua che parlate, con la quale siete cresciuti e che, questo è il punto fondamentale della questione, influenza il vostro cervello nell'attività di orientamento spaziale. Se parlate italiano (o inglese, o olandese) la carta sul secondo tavolo, nella stessa posizione di quella che avete visto nel primo tavolo, sarà quella con il punto nero sotto il punto bianco.
Ma se, per esempio, parlate Tzeltalan, la lingua degli Tzeltal del Chiapas messicano, o l'Hai//lom delle popolazioni del nord della Namibia, allora la carta da scegliere sarà quella con il punto nero sopra. E questo perché siete stati voi a muovervi, mica le carte.
Se provate a guardare i due tavoli dall'alto, infatti, vedrete che le due carte identiche, da questa prospettiva impersonale, sono quelle scelte dagli Tzeltal, mentre a noi appaiono identiche le altre, solo perché parliamo una lingua che utilizza il nostro corpo come punto di riferimento egocentrico (Majid, A. et al., 2004. “Can language restructure cognition? The case for space”. Trends in Cognitive Sciences 8(3):108–14).
Lo stesso dato appare sia tra gli adulti che tra i bambini di otto anni. Eppure, con i bambini più piccoli, sia appartenenti a comunità dotate di linguaggi egocentrici che allocentrici, così come con alcune specie di primati superiori, bonobo, gorilla, scimpanzé, si osserva una prevalenza della modalità allocentrica, l'utilizzo cioè di una cornice di riferimento assoluta. Questo risultato sembra mostrare che i bambini piccoli condividono con gli altri primati una preferenza innata per il ragionamento spaziale allocentrico e che, in alcuni casi, tale atteggiamento viene modificato con l'apprendimento di un particolare linguaggio e delle convenzioni culturali ad esso associate.

Il linguaggio che determina il pensiero
La lingua ci orienta nel mondo e lingue differenti ci danno strumenti cognitivi differenti. E questo vale sia per un'esperienza molto concreta come la navigazione dello spazio, ma anche nei confronti di altre esperienze, altrettanto fondamentali ma più astratte, come il pensiero numerico. Vi siete mai chiesti se esistono concetti che si possono esprimere in una lingua ma che non sono traducibili in alcun modo in un'altra? E se ciò è possibile, come faranno i parlanti della seconda lingua a pensare ai concetti che possono essere espressi solo nella prima lingua? È possibile, in altri termini, che esistano strutture linguistiche che impediscono, a chi le adotta, di pensare e di comprendere idee e concetti che, invece, sono pensati e compresi da chi parla una lingua differente? Questa non è altro che una versione più forte dell'ipotesi di Whorf: il linguaggio determina il pensiero.
Per molti anni si è pensato che tale questione fosse priva di senso e che le risposte alle domande precedenti dovessero essere negative. Oggi le cose appaiono meno certe, in questo senso. C'è un caso bizzarro che, al riguardo, vale la pena discutere.
Ad oggi non si conoscono casi di linguaggi nei quali siano assenti termini che indicano i numeri, eppure i sistemi attraverso i quali le diverse culture del mondo contano ed enumerano le quantità sono moltissimi e molto diversi tra loro. In alcuni casi vengono utilizzate le parti del corpo, fino a 20 o 30 differenti parti del corpo per indicare un numero finito di oggetti. Altre culture, come la nostra, utilizzano le dita, in maniera ricorsiva per fondare una numerazione in base dieci.
Altri ancora usano solo due numeri, ma in maniera composta, un po' come nel caso del sistema binario e, in questo modo, possono contare con due numeri, quantità potenzialmente infinite. Il sistema probabilmente più diverso dal nostro è quello di una popolazione dell'Amazzonia che adotta la convenzione “uno, due, molti”.
I Pirahã che vivono lungo le sponde del Rio Maici, adottano questo sistema, nel quale la numerosità di tutti gli insiemi composti da più di due oggetti viene definita dalla stessa parola, l'equivalente di “molti”. Peter Gordon, un neuroscienziato e linguista della Columbia University ha studiato a lungo questa popolazione e le relazioni tra la loro lingua e la loro cognizione numerica.
In una serie di test imitativi ha mostrato come anche semplicemente la riproduzione di un insieme formato da più di due oggetti portava i Pirahã a confondersi e a commettere errori basilari. Gordon ne conclude che l'assenza, nel loro linguaggio, di alcuni concetti numerali determina, per i membri del gruppo, l'impossibilità a livello cognitivo di gestire insiemi numerosi di oggetti. Risultati simili si ottengono anche nelle nostre culture “avanzate”, con bambini che non hanno ancora imparato a parlare. Il che fa supporre che non si tratti di un limite cognitivo innato, quanto piuttosto di un tratto legato ad un linguaggio differente o ad una abilità non ancora pienamente sviluppata, come nel caso dei bambini.

Il fascino che deriva da queste ricerche su come le variazioni linguistiche possono influenzare la nostra psicologia e perfino la nostra fisiologia, è legato al disvelamento di quanto la nostra specie sia frutto di una evoluzione culturale e di quanto la diversità culturale sia stata determinante per il nostro successo su questa terra.
Siamo uguali ma anche molto differenti e tale diversità è la nostra forza come specie.
Così come i matrimoni tra consanguinei, riducendo la variazione, producono un impoverimento del patrimonio genetico e una degenerazione della discendenza che, tra le altre cose, viene colpita con maggiore incidenza da patologie trasmesse come caratteri recessivi, allo stesso modo la chiusura all'incontro con l'altro, con il diverso in quanto diverso, rischia di produrre un impoverimento sul piano sociale, morale e perfino economico.
Le società integrate e inclusive crescono di più e sono più dinamiche di quelle monocromatiche, che finiscono per tendere invariabilmente al grigio. Abbiamo visto come il linguaggio allocentrico, che sposta il soggetto dal centro dell'Universo, aiuta un migliore orientamento spaziale.
Chissà che una mentalità meno egocentrica non possa aiutarci, singolarmente e come Paese, a navigare il Mondo e questi tempi complessi con maggiore cognizione ed efficacia. Guardando troppo la punta dei nostri piedi abbiamo forse perso il contatto con l'orizzonte e smarrito il senso di questo viaggio. Aiutiamoci, insieme, a riconquistarli questo senso e questa direzione, a partire dalla rinnovata consapevolezza che la diversità dell'altro ci dice, innanzitutto, che siamo tutti esseri umani, ma che ognuno dev'essere umano un po' a modo suo. Ecco il mio augurio per l'anno che verrà.

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