Diritto “vivente” e diritto “morente”: se il giudice ignora la legge in nome dei (propri) valori
Era il 1950, subito dopo la fine del totalitarismo (o almeno di quello nazi-fascista).
di Pier Luigi Portaluri
3' di lettura
Era il 1950, subito dopo la fine del totalitarismo (o almeno di quello nazi-fascista). Ed era Norberto Bobbio a insegnarcelo: «ancor oggi, a dire il vero, si riaffaccia di tanto in tanto nell’opera stessa dei giuristi – soprattutto di chi nello studio del diritto non può far tacere le proprie preoccupazioni moralistiche o politiche (e vi sono tempi, naturalmente, in cui non è tanto facile farle tacere) – l’immagine complessa e poco chiara di un giurista che si mette al di sopra delle regole e guarda alla loro origine sociale e al loro fondamento ideale, per indurne lo spirito generale connesso ai tempi e ai bisogni, e per valutarne la maggiore o minore adeguatezza agli ideali di giustizia».
Come deve atteggiarsi, allora, il rapporto fra il giurista e la collettività, quando non si tratti di produrre diritto anche formalmente politico, cioè proveniente da fonti rappresentative e quindi interne al circuito democratico? In altre parole: quali strumenti usa il giurista (nella sua accezione alternativa di studioso o di giudice) nel “disporsi” verso la società?Questione infinita. Tagliamola così: un giudice può estrarre regole direttamente dal suo rapporto diretto col sentire sociale, prescindendo dalla mediazione del diritto politico-rappresentativo? O, addirittura, trasgredendolo in nome di una personale tavola di valori?
Sono due situazioni molto diverse, impropriamente accomunate sotto la stessa etichetta: «creazionismo giudiziario». Il problema, in realtà, si pone sopra tutto per la seconda di esse, che peraltro scandisce al suo interno gradi crescenti di criticità “eversiva” rispetto al principio di separazione dei poteri.
Il baratro dove si potrebbe cadere – diceva appunto Bobbio – lo sperimentammo già, senza però apprenderne i rischi. Il dodicennio nero tedesco fu infatti un laboratorio tragicamente perfetto dove si teorizzò e praticò il disprezzo del Paragraph, cioè della disposizione scritta, dalla cui intollerabile schiavitù le scuole di formazione naziste insegnavano ad affrancarsi: «occorre uccidere il paragrafo, affinché il popolo viva», diceva Hans Frank, il criminale governatore della Polonia impiccato a Norimberga.
Dietro lo schermo metodologico del dialogo senza intermediari con la società, e dunque di una apprezzabile funzionalizzazione del diritto alle esigenze della collettività, potrebbe tuttavia celarsi un’operazione che conduce alla costruzione di una figura nuova di giurista o, per dire meglio, di un nuovo ruolo preteso dagli organi giurisdizionali.
Lo descrive bene, pur aderendovi, un raffinato giurista, Vincenzo Scalisi: il fatto concreto su cui il giudice deve pronunciarsi avrebbe – già in sé – un significato di valore così pregnante, da consentire tutte le «correzioni ed integrazioni logicamente possibili del testo» di legge. Ora il punto cruciale: «che se poi il testo dovesse invece opporre una insuperabile resistenza, allora all’interprete non resterebbe che denunziare lo scarto riscontrato, ma sempre al fine della necessaria messa in campo degli opportuni rimedi volti a conseguire nel quadro dei principi e valori di sistema la disapplicazione della norma palesemente ingiusta». In sostanza, il giudice si interpone fra la legge e il caso concreto e – se necessario – «modifica o adatta, sviluppa o riduce, nega o trasforma il testo legislativo».
In breve, se la legge si pone come testo resistente; se dunque nella “battaglia ermeneutica” essa non si arrende ai valori professati dal singolo giudice, questi la ignora. Non è questione di interpretare la legge, ma, all’occorrenza, di accantonarla.Nasce l’idea del “diritto vivente”. Che non è quello posto dal legislatore, bensì un altro: una molteplicità frammentata e conflittuale di regole stabilite dai giudici, ognuna delle quali ambisce a prevalere sulle altre.
Quando l’ordinamento (o dis/ordinamento) si atteggia però in questo modo, conoscendo pertanto un’incontrollata permeazione da parte dei valori espressi dalla collettività, l’area in cui si esercita il controllo giurisdizionale dell’agire sociale subisce una proporzionale estensione. Tentazione antica. Prendo da un altro giurista, Emanuele Conte, che si riferisce ad alcune Scuole medievali: la loro «attitudine a piegare il testo a significati che esso non aveva mai avuto» le aveva fatte divenire una sorta di implausibili «violentatori a fin di bene».
Non più, dunque, una deduzione di senso da una legge; al contrario, una inoculazione di elementi che le sono non solo estranei, ma addirittura incompatibili perché violativi dei «diritti del testo»: ed ecco che la figura del giudice può divenire – pur in quadro di valori completamente opposto rispetto a quello totalitarista – un terminale militante di molte aspettative.
Dobbiamo ancora sperare (contra spem?) che il diritto vivente, pressoché integralmente scritto dai giudici, sappia dialogare con la legge da una posizione di rispetto: senza considerarla, invece, come una reliquia del passato. Come un diritto, appunto, morente.
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