Discorsi d'odio in zone di guerra: Meta cambia i parametri per valutarli
Il contesto in cui si pronunciano le parole può modificare il giudizio sulla loro liceità o illiceità
di Carlo Melzi d'Eril e Giulio Enea Vigevani
3' di lettura
Facebook e Instagram modificheranno le regole relative alla cancellazione delle espressioni di odio in Russia, Ucraina e in alcuni Paesi con esse confinanti. Reuters e France Presse riferiscono, infatti, che in quei luoghi Meta consentirà affermazioni come “morte a Putin” o “morte ai soldati russi” o anche soltanto “morte ai russi”, purché non siano minacce specifiche ma invocazioni generali e purché sia chiaro il riferimento all'esercito invasore e non ai prigionieri di guerra o ai civili.
Per tutta risposta, l'ambasciata del Cremlino a Washington ha chiesto alle autorità americane di fermare le attività estremiste della società di Mark Zuckerberg, sottolineando come gli utilizzatori delle piattaforme non hanno dato ai gestori la facoltà di stabilire ciò che è vero e ciò che è falso, né di mettere le nazioni una contro l'altra.
Viene spontaneo chiedersi: il divieto di pronunciare discorsi d'odio o di incitazione alla violenza può modificarsi a seconda dell'obiettivo e delle latitudini? Sappiamo che tra le libertà maggiormente tutelate dai moderni Stati liberali c'è proprio quella di espressione. Un'eccessiva e irragionevole compressione del freedom of speech impedisce a una democrazia di dirsi pienamente tale.
Peraltro, un limite da sempre ritenuto invalicabile, anche dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, tradizionalmente amica del diritto di parola, è proprio quello del discorso d'odio e dell'incitamento alla violenza. Sulla scorta della giurisprudenza di Strasburgo anche l'ordinamento nazionale sta andando nella direzione di una maggiore tolleranza nei confronti dei reati “di stampa”, salvo che coinvolgano i due fenomeni sopra menzionati.
La parola può essere utilizzata per contribuire a un dibattito, magari aspro, e dunque diffondere fatti e idee, pure se ritenuti dalla maggioranza falsi o bizzarri. Ciò rientra all'interno della fisiologica vita pubblica di una nazione vivace. Qualora poi le affermazioni violino diritti rilevanti e meritino una sanzione, quest'ultima non deve essere tanto severa da terrorizzare, e così spegnere per il futuro la voce che le ha prodotte. Se si tratta di hate speech o istigazione alla violenza, invece, la parola non viene utilizzata per discutere ma per aizzare le persone contro le persone, spesso le maggioranze contro le minoranze.
Tuttavia, per capire se quello che appare tale sia davvero un discorso d'odio, la valutazione non può prescindere dal contesto in cui il messaggio è stato diffuso. Nel corso della guerra di aggressione della Russia contro l'Ucraina, entrata nelle nostre case, per ora solo attraverso gli schermi che ne riportano gli episodi agghiaccianti, invocare la morte degli aggressori, del loro esercito e del loro capo, significa né più né meno che augurarsi la loro sconfitta.
Una sconfitta anche militare, maturata su quel campo di battaglia che i russi per primi hanno battuto in armi, invadendo senza motivazioni accettabili in consessi civili uno Stato sovrano. In questo caso, per quanto si tratti sempre di discorsi di una certa delicatezza, auspicare la distruzione, anche fisica, di una forza di occupazione, nonché del loro leader che ha deciso l'intervento, somiglia molto a quella che nel nostro Paese è stata la Resistenza, a quel «sacro dovere del cittadino» di difendere la Patria, sancito nell'art. 52 della Carta Costituzionale.
Questa ottica sembra confermata dalla precisazione già ricordata per cui la piattaforma avrebbe tenuto una maggiore tolleranza verso i messaggi violenti purché non fossero rivolti a civili, prigionieri, o non contenessero dettagli tali da farli ritenere minacce concrete verso persone individuabili.
Lo sappiamo: la parola è uno strumento e, come tutti gli strumenti, è utilizzabile per fini pacifici e per fini bellicosi. La valutazione sulla sua liceità può dipendere non tanto dallo scopo perseguito, bensì – e in modo decisivo – proprio da ulteriori circostanze del contesto.
Ad esempio, l'aggressione dell'aggressore, se proporzionata, non è altri che una difesa e, quando è tale, come può essere vietata? A maggior ragione se l'aggressore non solo è più potente, ma è soprattutto prepotente e ha utilizzato la propria forza per schiacciare chi non cercava il conflitto.
Privare le vittime del grido contro l'ingiustizia significa disarmarne persino la più elementare resistenza, quella che nella lotta tiene alta la dignità dell'uomo, perché richiama la sua libertà più profonda, quella di non piegarsi alla sopraffazione. Anche se fossero gli ultimi «calci al vento» tirati dall'impiccato prima di vedere «sfumare la luce».
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