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Discriminati sul lavoro, in un caso su tre decisivo il fattore età

Secondo un’analisi di PageGroup il fenomeno supera quello di genere. I più colpiti sono i dipendenti in posizione di leadership (31%)

di Valentina Pomares e Serena Uccello

 L’indagine è stata condotta su un campione di 5.000 addetti in Europa

3' di lettura

Uno su due, ovvero il 51 per cento. È la percentuale di lavoratori che ha dichiarato di aver subìto discriminazioni sul posto di lavoro una o più volte negli ultimi 12 mesi. A registrarlo è un’indagine condotta a livello europeo da PageGroup, società internazionale di recruiting, su un campione di circa 5mila dipendenti. In particolare uno su sei (il 18%) ha dichiarato di essere stato discriminato “spesso” o “sempre”, mentre il 33% ha riferito di “episodi occasionali”. Ma la specificità evidenziata dalla ricerca è che la discriminazione non riguarda più solo il genere: una persona su tre è stata discriminata per l’età nell’ultimo anno.

L’indagine

«Solitamente quando pensiamo alla discriminazione, ci vengono in mente episodi legati al genere, tuttavia la nostra indagine Sustainability Insights – precisa Pamela Bonavita, managing director di PageGroup – dipinge un quadro diverso: l’età, infatti, è la causa più comune di discriminazione (34%); seguono il genere (23%) e il background culturale (22%). Indipendentemente dal motivo, non dobbiamo dimenticare che non sentirsi accolti, a lungo andare, può rendere le persone insicure, escluse e svantaggiate e causare insoddisfazione e malcontento. Per questo motivo, è fondamentale che le aziende siano consapevoli e, se necessario, sappiano intervenire tempestivamente».

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A essere colpiti sono soprattutto i dipendenti in posizione di leadership: il 31% rispetto al 21% dei lavoratori di livello non dirigenziale.

«La digitalizzazione – spiega Matilde Marandola, presidente nazionale Aidp, l’Associazione italiana per la direzione del personale – ha cambiato le dinamiche legate all’apprendimento reciproco tra lavoratori. Se prima erano gli “anziani” a trasferire competenze, ora il peso dei giovani in questa reciprocità è cresciuto. Come è cresciuto il pregiudizio sul fatto che l’età avanzata determini uno scarso orientamento alla tecnologia e al digitale. In seno alle organizzazioni – conclude Marandola – questo è un problema, perché l’approccio giusto dovrebbe essere quello di una valutazione sulle competenze, e le competenze non hanno età o orientamento sessuale o colore della pelle».

Un fenomeno che rischia di avere un impatto «significativo sulle organizzazioni perché potrebbe spingere le persone a lasciare l’azienda, portando con sé conoscenze e competenze», spiega la ricerca di PageGroup. Un impatto non solo sulla retention dei talenti ma anche sul piano delle possibili contestazioni in tribunale. Nei casi più estremi infatti, quelli in cui l’elemento anagrafico diventa causa di licenziamento, la giurisprudenza censura con chiarezza questo esito.

La giurisprudenza nella Pa

Nella pubblica amministrazione, ad esempio, proprio di recente (la sentenza è la numero 12713 del 10 maggio 2023) la Corte di cassazione è intervenuta nel caso del licenziamento di un dipendente che aveva maturato i requisiti per accedere alla pensione. Un intervento che peraltro fornisce un’interpretazione dell’articolo 72, comma 11, del Dl 112/2008, applicato in questo caso. Si tratta del comma che disciplina la risoluzione del rapporto di lavoro da parte della Pa «nel caso di compimento dell’anzianità massima contributiva di 40 anni del personale dipendente».

Ecco, secondo la Cassazione, benché il pubblico interesse e gli obiettivi di efficienza ed economicità dell’azione amministrativa che stanno alla base della norma consentano il licenziamento del dipendente pubblico che abbia maturato la massima anzianità contributiva, occorre, tuttavia, che questa facoltà di recesso venga esercitata nel rispetto dell’obbligo di motivazione dell’atto amministrativo che ne permette appunto l’esercizio.

Come dire: attenzione alle procedure. Perché nel caso in cui questo obbligo venga violato, è impedito il controllo di legalità dell’atto amministrativo e la «risoluzione del rapporto di lavoro in ragione dell’anzianità contributiva» concretizza dunque una «illegittima discriminazione in ragione dell’età».

Applicando questo principio la Suprema Corte ha quindi confermato la sentenza di appello che aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento impugnato, dal momento che era stato accertato che il provvedimento dell’amministrazione, che attuava il recesso, non indicava i criteri in base ai quali il ricorrente, in ragione della «specifica posizione lavorativa» ricoperta, risultasse ricompreso nel novero dei «dipendenti rinunziabili».

La giurisprudenza nel privato

Dalla macchina pubblica alle aziende private il passo dei giudici non cambia. A questo proposito è emblematica la pronuncia emessa il 10 novembre 2021 dal Tribunale di Milano, laddove la nullità del licenziamento è stata fatta discendere da due elementi. Il primo: la violazione del divieto di recesso per ragioni oggettive disposto dalla normativa emergenziale, ritenuto altresì applicabile al personale dirigenziale e quindi applicabile, in ogni caso, dal momento che emergevano i tratti di una situazione in cui si poteva ipotizzare una “pseudo-dirigenza”. Il secondo: la circostanza che il licenziamento fosse stato «intimato per ragioni esclusivamente connesse con l’età anagrafica del ricorrente».

Secondo il giudice, infatti, la «discriminazione per ragioni di età» emergeva dallo stesso tenore letterale della comunicazione di recesso, laddove il criterio adottato per l’individuazione del ricorrente quale lavoratore da licenziare era stato fatto coincidere con il (solo) «requisito anagrafico» e, quindi, con la sua «prossimità alla pensione».

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