Disney, un regno magico invaso dalla pandemia
Analisti proccupati al di là dell’impatto sui conti. Studios, parchi, crociere in panne. Anche la scommessa sullo streaming potrebbe soffrire
di Marco Valsania
5' di lettura
C’era una volta il Magic Kingdom. Il Regno Magico di Disney. Un marchio che è simbolo stesso della “Fabbrica dei sogni” hollywoodiana e delle sue fortune globali. Ma Disney, reduce da un lungo e straordinario periodo di vittoriosa espansione e crescita, oggi è un regno sotto assedio, invaso da un virus “barbaro”, capace di erodere imperi. Ciò che era la sua forza, la vastità stessa del suo raggio d’azione geografico e la molteplicità delle sue attività, nell’era segnata dalla pandemia minaccia di tramutarsi in un tallone d’Achille, in una profezia di tramonto.
Quelle che finora erano le grandi province del suo dominio, fonte di lustro e performance per i forzieri di Burbank, vedono i loro confini inesorabilmente violati, con studi cinematografici abbandonati, crociere in panne, parchi tematici chiusi.
Magia appannata
Magia appannata - ben al di là dell’impatto immediato della pandemia sul bilancio nel primo e secondo trimestre dell’anno - è quella descritta dall’analista Richard Greenfield di LightShed Partners: ha declassato la raccomandazione sul titolo a “sell”. Vendere, nonostante le quotazioni siano già in calo del 30% da inizio anno. “Siamo convinti che siano sopravvalutate”, ha affermato delle azioni nella sua analisi, contemporaneamente tagliando previsioni di utili sia per quest’anno che per il prossimo. “Crediamo che Disney sarà costretta a ridimensionare gli investimenti strategici e ridurre sostanzialmente i costi”.
A risentirne, se rimarranno vittima di scarsa agilità tipica dei colossi, potrebbero essere anche le frontiere paradossalmente più promettenti: le scosse, ha avvertito Greenfield, potrebbero erodere “la speranza degli investitori” di nuove offensive “per avvantaggiarsi della svolta sullo streaming”. Un riferimento alla scommessa di Disney+, con cui ha sfidato il leader dello streaming Netflix e dove ha riportato iniziali exploit con oltre 50 milioni di abbonati nel giro di pochi mesi. Risultato: “I profitti di Disney appaiono fondamentalmente danneggiati”, almeno fino a che non sarà tornata una vera normalità collettiva, una fiducia nelle “esperienze di gruppo” oggi travolte dal coronavirus.
From great to ugly
Greenfield non è la sola Cassandra. Un altro segugio sulla pista di Disney, Michael Nathanson di MoffettNathanson, ha riassunto la nuova realtà in una frase degna del titolo d’un film alla Sergio Leone: “From great to good to bad to ugly”, da fantastica a buona a brutta a pessima. Una generale e profonda recessione che appare ormai certa, con scarse prospettive di facili recuperi, non può che complicare le cose. Anche il gioiello Disney+, tuttora in fase di decollo e con promesso ingresso in altri 40 paesi, in questo momento potrebbe pesare sotto il profilo finanziario, con perdite ipotizzate per due miliardi quest’anno.
La crisi, ancora prima che dai pronostici, è portata alla ribalta dalle cifre stesse delle attività colpite all’indomani dell’ultima, grande conquista, che avrebbe dovuto consacrare il suo dominio internazionale nell’entertainment: quella da oltre 70 miliardi di dollari degli asset più preziosi di Rupert Murdoch. Adesso i suoi 14 giganteschi parchi divertimenti nel mondo sono vuoti, e se dovessero riaprire parzialmente nei prossimi mesi resta da dimostrare che possano attirare folle. Ogni anno qui si recavano 157 milioni di persone e nel 2019 avevano riportato utili record. Arenate restano quattro navi da crociera con altre tre in costruzione, e senza clienti l’isola privata nei Caraibi, Castaway Cay, con una seconda in costruzione per miliardi di dollari. Congelati sono di fatto i suoi otto colossali Studios, cuore della produzione cinematografica, che controllano il 40% delle entrare al botteghino domestico e abitualmente sfornano blockbuster internazionali. Come pure quattro studi Tv, con normalmente all’attivo 70 show.
Sotto pressione sono reti televisive, quali Abc che controlla dal 1995 e vive di pubblicità; e canali a pagamento (300 nel mondo) a cominciare dagli sportivi Espn, adesso poveri di eventi. Nel limbo sono 29 sfarzosi spettacoli teatrali ai quattro angoli del globo, e sette spettacoli su ghiaccio. Per non parlare di alberghi e multiproprietà con 42.000 tra stanze e locali in tre continenti. O della leadership internazionale nel merchandising con vendite per 55 miliardi e e 325 negozi nei soli Stati Uniti. Di attività nell’editoria che operano in 68 paesi e 45 lingue. E persino di una rete di 25 scuole in Cina.
Centomila licenziamenti
Lo shock sul business è rapidamente filtrato nei licenziamenti annunciati dal gruppo, permanenti o temporanei. Ad oggi sono stati oltre centomila. Disney ha anche ridotto fino al 50% i compensi dei dirigenti - e il suo leader di lungo corso Bob Iger ha rinunciato al suo salario di base (che però è la componente più modesta dei compensi dei top executive americani). Rivelatrici della sfida aperta sono inoltre le mosse prudenziali del gruppo per assicurarsi risorse: ha concordato con le banche il mese scorso una linea di credito da cinque miliardi, dopo altre per 8,25 miliardi accese in marzo, puntellando le sue finanze nel momento dell’emergenza con oltre 13 miliardi a disposizione. Potrebbe infine rinunciare a pagare il dividendo, una decisione che dovrebbe essere in agenda all’assemblea annuale - virtuale? - di giugno.
Non basta. Il terremoto ha complicato i piani di transizione al vertice, che dovevano vedere lo storico leader del boom del gruppo, Iger, consacrare la sua legacy e assumere una posizione di chairman esecutivo con compiti strategici lasciando le redini quotidiane al 60enne neo-chef executive Bob Chapek, promosso dalla divisione dei parchi tematici. Iger ha di recente fatto sapere che continuerà invece a coadiuvare per ora Chapek.
Un’eredità in gioco
In gioco è la sua stessa eredità inestricabilmente legata all’identità di Disney. Iger è stato definito come l’ultimo tycoon di Hollywood perchè, con i suoi toni pacati, ha in realtà trasformato aggressivamente negli anni della sua gestione l’impero di Topolino a colpi di acquisizioni per un totale di quasi cento miliardi di dollari. Da Pixar a Marvel e Lucasfilm (quella di Guerre Stellari), fino, appunto, ai 71 miliardi spesi per la parte pregiata del regno di un altro magnate - la Fox di Rupert Murdoch. Negli ultimi mesi ha innescato anche la nuova guerra dello streaming, gettandosi a capofitto nella sfida al leader Netflix con Disney+. Ha portato insomma Disney, con la sua storica reputazione e la sua vasta produzione di contenuto, definitivamente sulle frontiere delle nuove tecnologie.
Iger, che ormai ha 69 anni, è stato al comando del gruppo dal 2005. Nella sua recente autobiografia racconta la sua storia di ragazzo di modesti mezzi che fa carriera fino al top. E nel presentarla aveva spiegato così il tempismo del suo annunciato ritiro: “Con il lancio di successo del business direct-to-consumer (lo streaming, ndr) e l’integrazione della Twenty-First Century Fox ben avviata il momento è ottimale per il passaggio al nuovo Ceo”. Ottimale, con il senno di poi, non lo è stato. Disney ha alle spalle una lunga storia nella quale ha attraversato ripetute crisi e polemiche, sempre capace di rilanciarsi. Il coronavirus potrebbe rivelarsi la sfida più dura.
Per approfondire:
● Accordo con la casa di Topolino, Disney+ in esclusiva su Timvision
● Netflix, Disney+, Quibi, tv tradizionali: la guerra tra schermi torna in salotto
● Disney, lascia il ceo Bob Iger
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