SBAGLIANDO SI IMPARA

Disoccupazione uguale fallimento? Spesso è lì che si trovano i talenti

Ogni persona ha competenze trasversali che coltiva proprio quando non lavora e che non si riflettono nelle cariche ricoperte nel tempo

di Eva Campi *

(M.Gove - Fotolia)

4' di lettura

È ormai un dato tristemente noto quanto l’anno di pandemia appena trascorso abbia pesato particolarmente su molti lavoratori, specialmente giovani e donne. I dati resi noti dall'Istat e dall'Eurostat ci restituiscono un bilancio fatto di un aumento preoccupante dell’inattività tra gli under 35 e di un crollo verticale dal punto di vista dell’occupazione femminile. Di fronte ad una crescente crisi dell’occupazione, dovuta al momento contingente, è necessario comprendere gli effetti sociologici di quella che Ofer Sharone, autore del libro “Flawed System/Flawed Self: Job Searching and Unployment Experiences”, chiama “the LTU stigma” (the long-term unemployment stigma) e cioè il pregiudizio che colpisce le persone che hanno perso il lavoro da più di sei mesi.

Da professionista e osservatore dell’ambito della selezione e delle risorse umane, non posso che constatare quanto questo marchio rispetto alla disoccupazione sia presente nelle menti e nelle pratiche di alcune culture organizzative. Molti reclutatori, infatti, continuano a preferire ciò che chiamiamo “il candidato passivo”. Secondo la loro scala di giudizio, il candidato “top” è quello che viene identificato tra gli occupati e non in cerca di lavoro; la seconda scelta si esprime verso gli occupati e in cerca di lavoro, mentre sull’ultimo gradino troviamo i disoccupati e in cerca di lavoro.

Loading...

Il tema di fondo è che se un candidato è attivamente alla ricerca di un impiego e disoccupato, è meno desiderabile del candidato che già un lavoro ce l’ha. E le persone in cerca di lavoro sono consapevoli di questo atteggiamento: secondo un sondaggio di LinkedIn dell'ottobre 2020, l’84% degli americani crede che questo sia un vero e proprio stigma negativo associato alla disoccupazione e il 67% crede che questo pregiudizio stia influenzando la loro capacità di essere assunti.

Ciò che risulta preoccupante da un punto di vista sociale e psicologico, è che la consapevolezza dell’esistenza di questi bias crei, in molti, una tale demotivazione dal rinunciare alla ricerca, un trauma dal quale è difficile risollevarsi. Nella ricerca di Linkedin menzionata emerge anche il dato che il 46% delle persone in cerca di un’occupazione ha ammesso di aver mentito in relazione al proprio stato di disoccupazione. La triste verità è che spesso si vergognano. Alle radici di questo sentimento di inettitudine e fallimento sussistono, inevitabilmente, motivazioni personali e atteggiamenti individuali profondi, tuttavia non possiamo negare quanto un certo modo di declinare ed intendere il successo e la riuscita, negli ultimi 30 anni, possa aver contribuito a questo sentimento di disfatta e profonda depressione, che avvertiamo anche a livello collettivo.

Infatti, una cultura incentrata sul “tutto dipende da te” e “se vuoi, puoi”, se da un lato ha incentivato molti di noi a sfidare se stessi, perseverare verso il traguardo e a non mollare di fronte alla difficoltà per raggiungere il proprio obiettivo, dall’altro lato ha generato l’opinione diffusa, a livello latente e implicito, che se alla fine qualcuno non ci riesce a tagliare il nastro della vittoria, vuol dire che, o non era abbastanza “bravo”, o non abbastanza tenace, o non abbastanza motivato; insomma, non abbastanza.

Il “tutto dipende da te” emerge nella sua forma giudicante e distruttiva secondo la quale, se non hai raggiunto il successo che ti eri prefissato, allora vuol dire che qualcosa devi aver sbagliato; se sei senza lavoro, allora, c’è qualcosa che non va, non sei abbastanza. Ciò che non viene assolutamente preso in considerazione in questi ragionamenti più o meno inconsapevoli, è quella dose di imprevedibilità che nella vita di ciascuno di noi può scatenarsi in modo dirompente e che per alcuni è una grandinata che ti ammacca la carrozzeria dell’automobile; per altri, invece, uno tsunami che porta via tutto quello che hai.

Continueremo a scivolare nello stigma della disoccupazione, noi esperti di HR e responsabili delle assunzioni nelle organizzazioni, nei prossimi giorni, mesi e anni? Quando nei cv troveremo “i buchi”, cioè periodi in cui i candidati sono stati inattivi, come ci comporteremo? Che idea ci faremo da adesso in poi?Alla luce dell’esperienza della pandemia, ritengo e mi auguro un cambiamento radicale. Dopo aver sperimentato sulla nostra pelle quanto un evento possa trasformare le vite di milioni di persone in modo totale e senza alcuna responsabilità diretta, non possiamo più negare che esistano delle circostanze, nell’esistenza di ognuno, che sfuggono completamente alla nostra gestione e che escono sideralmente dalla propria area di influenza.

Questo salto di paradigma spalanca nuove e insperate prospettive. Ecco aprirsi la possibilità di andare ad esplorare proprio “quei buchi”, perché spesso è lì che troviamo le risorse, i talenti e le migliori attitudini delle persone. È lì che scopriamo i perché di alcune scelte o di quelle situazioni “non lineari” tanto definenti la costruzione della Persona, sia come individuo che come lavoratore.

Se c’è un modo per comprendere le competenze trasversali di qualcuno è proprio chiedendogli cosa fa quando non lavora, giusto? Ogni persona ha la propria unica storia e quella storia non si limita alle date di permanenza in carica riportate su un curriculum o dal modo in cui il suo cv è arrivato sulla nostra scrivania. Il mondo delle risorse umane è cambiato radicalmente negli ultimi 20 anni, e nella sua mission di cultural changer può guidare anche questa battaglia ed essere protagonista di quel cambio culturale organizzativo diffuso sempre più dal volto umano.

* Partner di Newton Spa

Brand connect

Loading...

Newsletter

Notizie e approfondimenti sugli avvenimenti politici, economici e finanziari.

Iscriviti