Distretti del cibo a quota 188: aumentati del 33% in un anno a caccia di finanziamenti
Nati in sordina nel 2017 sono decollati anche con le risorse stanziate dagli ultimi governi che ammontano a 270 milioni. E ora tra Pac e Pnrr il potenziale da intercettare arriva a 7 miliardi
di Manuela Soressi
3' di lettura
Nel 2021 erano 65, oggi sono 188. Basta questa cifra per riassumere la crescita dei Distretti del cibo, istituiti con la legge di bilancio 2018 per proporre un nuovo modello operativo finalizzato a rafforzare lo sviluppo economico e sociale dei territori. Ispirati ai distretti industriali, queste strutture nascono per coinvolgere tutti i soggetti del mondo agroalimentare – dai produttori alle associazioni, dai ristoratori agli enti locali – affinché possano lavorare insieme per promuovere la crescita delle filiere e dei territori, accompagnandone la transizione “verde” e supportando la nascita di nuove economie, in particolare nelle zone interne e remote.
Nonostante i nobili intenti con cui sono nati, però, i distretti del cibo hanno stentato a decollare, almeno fin quando sono arrivati i primi finanziamenti: ai 25 milioni del 2019 si è aggiunto uno stanziamento di 120 milioni tra il 2020 e il 2022 che – con il cofinanziamento dei privati al 70% – ha portato a 315 i milioni spesi. Poi è arrivata la possibilità di attingere i fondi del Pnrr e per il 2023 sono stati previsti altri 125 milioni per un bando in fase di preparazione (risorse che potrebbero aumentare secondo quanto dichiarato dal ministro Lollobrigida). Anche grazie a questo, in meno di un anno, il numero dei distretti iscritti all’apposito Registro nazionale istituito dal Masaf è aumentato del 33%.
«L’arrivo delle risorse finanziarie ha fatto da volano allo sviluppo dei distretti del cibo, che ora rappresentano anche come uno strumento per intercettare le opportunità offerte dalla politica agricola europea», spiega Serena Tarangioli, dirigente tecnologo del Crea-Pb (Centro Politiche e Bioeconomia). In ballo ci sono tanti soldi: 7 miliardi di euro tra Pac e fondo complementare del Pnrr (1,2 miliardi di euro), calcola il Crea. A cui si affiancano le risorse dei bandi regionali e i finanziamenti agevolati erogati dalle banche, come i 50 milioni di plafond messi a disposizione da Intesa Sanpaolo.
A far convergere l’attenzione sui distretti del cibo è la loro coerenza con la visione a lungo termine della Ue sulle zone rurali, che vuole stimolare un approccio di cooperazione per avviare uno sviluppo territoriale equilibrato e sostenerlo con strumenti concreti e dedicati, in particolare con il programma Leader.
Sebbene non se ne parli in modo dedicato, nel piano strategico della Pac 2023-2027 i distretti del cibo vengono inseriti tra i possibili beneficiari dei sostegni comunitari perché giudicati modelli di governance virtuosi e inclusivi, capaci di avviare processi innovativi di sviluppo. Inoltre hanno il merito di superare alcuni limiti della politica agricola comunitaria: mettendo in rete le pratiche, gli attori e le economie locali offrono una visione “olistica”, assente nella Pac, e creando un’ampia rete di stakeholder consentono anche alle piccole realtà (predominanti in Italia) di fare massa critica accendendo sia al mercato sia ai programmi comunitari, altrimenti irraggiungibili.
In questa dimensione corale, collaborativa e orizzontale sta la loro peculiarità, quella che li distingue dalle filiere verticali, dai Consorzi di tutela delle Dop/Igp o dagli approcci strettamente agricoli. Non solo. Di fatto, i distretti del cibo vengono a coprire le aree lasciate scoperte dalla soppressione delle province, proponendosi come un organismo intermedio che rafforza la capacità dei territori di elaborare progetti e migliorare la gestione delle risorse disponibili.
«In questo momento i distretti del cibo sono una realtà potenzialmente importante, ma ancora in via di strutturazione – continua Tarangioli –. La realtà è molto dinamica ma anche tanto difforme». Che si tratti di un modello tutt’altro che omogeneo e ugualmente distribuito sul territorio nazionale emerge con evidenza dalle analisi condotte dal Crea.
Il 67% dei distretti si concentra in cinque regioni, con la Toscana come leader (41 distretti) e cinque regioni sono a quota zero. Ampia anche la varietà di tipologie: si va dalle Strade del vino della Toscana ai distretti di filiera della Lombardia, dal Biodistretto Val di Vara al Distretto produttivo florovivaistico pugliese, fino al Distretto rurale dell’Ogliastra. Quest’eterogeneità si riflette nei modelli organizzativi, che vanno dai semplici partenariati alle forme societarie più articolate.
Una situazione dettata dal fatto che la legge istitutiva ne ammette diversi modelli – dai “Distretti agroalimentari di qualità” ai “Distretti rurali”, dai “Sistemi produttivi locali” (compresi quelli interregionali e delle aree urbane e periurbane, filiere corte e localizzate) ai “Biodistretti” – e che il riconoscimento è affidato a Regioni e Province autonome.
Questo genera una grande difformità sia in tema di identità che di operatività. Tanto che la Consulta Nazionale Distretti del Cibo, l’organismo che li rappresenta, ha chiesto al Masaf di fare chiarezza. «Serve una visione unica e condivisa con tutte le istituzioni per fare rete e costruire il sistema Italia e, quindi, il futuro del nostro Paese», ha affermato il presidente Angelo Barone durante il secondo incontro nazionale della Consulta, tenutosi pochi giorni fa a Matera.
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