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«Dobbiamo trovare nuove vie per portare il giornale ai lettori di domani»

Virginia Stagni. L’under 30 italiana alla guida del business development del Financial Times è convinta che le aziende editoriali abbiano bisogno d’innovatori attenti, curiosi e irriverenti

di Lucilla Incorvati

Dopo la laurea alla Bocconi e il master in sociologia dei media alla London School of Economics, Virginia Stagni oggi è head of business development al Ft, advisor per la società di consulenza Ft Strategies, da lei co-creata con il dipartimento data ed è Ceo e founder della startup wellness Good Saints

6' di lettura

Cosa unisce Miles Davis, Sonny Rollins e Frank J. Barrett? Non è solo una comunanza di armonia creativa e intuizioni ma è l’improvvisazione. Quel tratto tipico della “mentalità jazz” in cui si padroneggia l’arte di disimparare, eseguire e sperimentare allo stesso tempo; alternarsi negli assolo e sostenersi a vicenda con la forza di una band. Sono queste “abilità” (skills come le chiamano gli anglosassoni) che nelle grandi organizzazioni oggi fanno la differenza. Si rivelano essenziali per diventare leader o dar vita a squadre vincenti. Inventare nuove risposte, assumere rischi senza una rete di sicurezza per raggiungere certi risultati. E ancora, negoziare strada facendo tralasciando gli errori per non soffocare le idee: insomma, dire «sì» alla confusione, accettare il disordine che è proprio del mondo del lavoro contemporaneo, movimentato e tormentato ma anche innovativo e fertile.

C’è musica nelle orecchie prima ancora che pensiero umanista, veloce e raffinato quando chiacchieri con Virginia Stagni, cantante per passione (di jazz e blues ovviamente), bolognese, giovanissima under 30 da seguire secondo Forbes perché se oggi è una giovanissima top manager del Financial Times, tra qualche anno la potremmo ritrovare a mettere un po’ di sano disordine in altri contesti ultrastrutturati.

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Virginia è head of business development, ovvero ricerca strategie di prodotto e di business per rendere evergreen un’istituzione che ha 132 anni di vita e, pur essendo il più famoso giornale finanziario al mondo, è in un settore maturo, in crisi (Ft per ridurre i costi un mese fa ha chiuso l’ultimo centro di stampa londinese) e nel pieno della più grande rivoluzione digitale. Il suo è un ruolo per certi versi ibrido (richiede creatività, fiuto commerciale, capacità digitali) ancora poco sperimentato altrove: l’innovazione culturale va di pari passo all’analisi dei dati e a come si dirigono i ricavi alternativi, quelli oltre gli abbonamenti, la vendita della pubblicità e i servizi. «Con il mio team dobbiamo trovare nuove vie per portare la testata al lettore di domani che vuol dire studiare, includere e capire la popolazione dentro e fuori dal giornale», racconta Virginia. «Non solo. Intercettare e inventare prodotti nuovi che possano coinvolgere audience che non sono quelle tradizionali. Quello che facciamo è entrare nelle scuole, negli eventi di networking, come le start up, captando giovani imprenditori per fare conoscere quanto può esser utile scegliere il Financial Times per informarsi». Così Virginia, con un team di agguerriti giovani, sperimenta e trova le vie per far sì che anche il mondo sofisticato e tecnico del Ft diventi una prateria dove i giovani possano ritrovarsi perché utile alla loro formazione e al loro lavoro. Come il Financial Times Talent Challenge, una sua invenzione sulla quale la multinazionale ha scommesso. Si tratta di un incubatore dove gli studenti di tutto il mondo cercano soluzioni e nuovi progetti per il mondo dei media e delle imprese. Qualche settimana fa l’iniziativa ha visto in primo piano anche il Sole 24 Ore con Cisco, Egea, Illimity, Johnson & Johnson, Technacy. Duemila giovani hanno chiesto di partecipare, cento sono stati selezionati e 20, suddivisi in cinque team, hanno vinto (alla sfida, durata una settimana, hanno partecipato in streaming oltre 70 mila giovani). Così il 4 giugno i progetti vincenti verranno presentati al Festival dell’Economia di Trento, in un dialogo tra giovani e imprese.

«Le generazioni future che si affacciamo al mondo del lavoro hanno aspettative e capacità diverse che impongono un approccio radicalmente nuovo – aggiunge Virginia – ci sono i millennials come me che hanno vissuto la migrazione digitale e quelli tra i 6 e 24 anni che sono nativi digitali. La differenza tra i due gruppi non è solo una questione di nomenclatura ma di forma mentis e di come ci si approccia ai prodotti dalla carta stampata a tutto il resto. Di fronte a un’app che impiega più di 30 secondi a fare un download il nativo digitale va via. Questo è terribilmente negativo per un’azienda editoriale. Ecco perché dobbiamo fare in modo che l’esperienza digitale sia ottima e di grande qualità, oltre a contenuti eccellenti che non devono mancare. E ancora un podcast rivolto a giovanissimi sulla tecnologia se raccontato da un coetaneo fa più presa rispetto a quello di docente universitario. Oggi quello dell’informazione è un mondo cacofonico e per differenziarsi si deve essere bravi a rendere chiara la propria visione, il proprio obiettivo e la propria missione». Le aziende editoriali hanno bisogno di firme ma anche di intrapreneurs, innovatori attenti, curiosi e irriverenti, manager umanisti – come racconta Virginia nel suo libro Dreamers who do: intrapreneurship and innovation in the media world – che lavorino non solo sui conti «ma sui valori e sviluppino empatia e adattabilità».

Se poi guardiamo a come attrarre e trattenere i talenti tra i millennials (e non solo) non si può non tener conto del cosiddetto job hopping, che spinge molti a “saltare” da un posto di lavoro all’altro. I giovani, pur essendo molto flessibili ad accettare compromessi, pretendono in cambio uno sforzo in più da parte delle aziende per sentirsi accolti e a proprio agio, dal momento che danno molto valore all’ambiente in cui si inseriscono. Vogliono sperimentare più posizioni e più ruoli e non si accontentano come i loro padri di iniziare e terminare un percorso di carriera nella stessa azienda. Dall’altro assistiamo in tutto il mondo (in quello anglossassone in modo particolare) alla great resignation: in molti lasciano il lavoro alla ricerca di un posto che preservi il benessere personale, spesso per difendere un proprio work-life balance. Questo, se da un lato apre delle opportunità per i giovani, dall’altro deve far riflettere il mondo delle aziende su cosa viene proposto. «Personalmente sono stata fortunata perché diversamente da quanto accade in Italia dove spesso i giovani sono relegati a fare tanti stage non retribuiti o a contratti a tempo determinato – ricorda Virginia – nel Regno Unito le imprese rischiano sui giovani, attraggono capitale umano, indipendentemente dall’età anagrafica se l’idea è convincente. Poi ti mettono alla prova e vogliono i risultati. È tipico di una mentalità d’impresa che ancora fa fatica a imporsi in Italia. Io sono partita dal basso, perfino con un inglese non perfetto ma poi quando è stato il momento me la sono giocata».

Di risultati Virginia in cinque anni ne ha portati tanti, grazie a determinazione, grinta e disciplina: «Anni e anni di judo e basket mi hanno aiutata», ma soprattutto a una sensibilità verso il mondo delle news e all’abitudine al lavoro duro. La prima viene da lontano: fin da piccola per l’attività dei genitori si è ritrovata tra le mani i giornali. I signori Stagni, infatti, avevano un’agenzia di stampa, e ogni sera portavano i quotidiani a casa e Virginia quel mondo lo ha fatto suo. «Ancora oggi – racconta – capita spesso che mamma e papà mi inviino una loro preziosissima selezione di notizie che leggo sempre con scrupolo». Prima con gli studi classici al severo Liceo Minghetti di Bologna («non ho mai più raggiunto un tal livello di lavoro e fatica») poi il suo curriculum umanistico-economico si è arricchito con la Laurea alla Bocconi di Milano in Economia Management per Arte, Cultura e Spettacolo, e grazie a una borsa di studi, al master in Sociologia dei media alla London School of Economics. Proprio la tesi alla Lse è stato il trampolino di lancio per entrare, a soli 24 anni, nel quotidiano britannico, condita con sano spirito imprenditoriale. Virginia è riuscita ad avere il primo contatto inviando un messaggio su Linkedin al direttore commerciale del Financial Times, Jon Slade, che disse «sì» alla sua richiesta di un’intervista per la sua tesi di fine Master sulle strategie per salvare il giornalismo di qualità nell’epoca della rivoluzione digitale.

Oggi Virgina è anche advisor per la società di consulenza Ft Strategies, da lei co-creata con il dipartimento data ed è Ceo e founder della startup wellness Good Saints; infine siede nel consiglio di amministrazione di Inma Europe. «Ci chiediamo perché tanti giovani lasciano l’Italia? Perché quello che è accaduto a me, di poter svolgere anche un’attività in proprio dentro una multinazionale, è rarissimo». Solo dieci anni fa, all’ombra delle Due Torri, Virginia si vedeva altrove. Il sogno di diventare cantante è svanito quando ha capito che la passione per la musica poteva accompagnarla per tutta la vita senza diventare una professione. Poi è arrivata quella per l’archeologia. Ma poi sull’amore per i classici ha avuto il sopravvento diventare reporter di guerra. «Forse avevo letto troppo la Fallaci – sorride – ma quei viaggi con lo zaino in spalla a esplorare territori in cerca di reperti per sentieri poco battuti mi è rimasta addosso. Poi, il master alla Lse mi ha fatto capire che desideravo mettere a terra concretamente le mie idee». Di sogni nel cassetto Virginia ne ha molti: tornare a vivere in Italia, uno dei pochi Paesi dove si riesce a coniugare il lavoro con il saper vivere; tornare a studiare filosofia per arricchire la formazione socio-economica; sperimentare il mondo del lavoro americano, magari sempre sotto l’ombrello di Ft. Ma prima di ogni altra cosa preparare il suo zaino per un trekking in Uganda alla scoperta del mondo dei gorilla per riconciliarsi con i nostri antenati.

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