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Donne Ceo nelle principali 50 quotate italiane? Nessuna. Deficit culturale e manageriale

L’imposizione delle quote rosa nei Cda non ha generato purtroppo meccanismi virtuosi

di Massimo Milletti e Alessandro Minichilli

(pressmaster - stock.adobe.com)

3' di lettura

Gli effetti collaterali erano desiderati. Anzi, erano il sottinteso obiettivo della legge Golfo/Mosca. Basato sul teorema che l’imposizione di quote rosa nei CdA avrebbe generato un virtuoso meccanismo di sviluppo delle carriere femminili all’interno delle aziende. A 12 anni dal varo della legge, se da una parte c’è una forte evidenza che gli obiettivi di miglioramento della qualità della corporate governance siano stati progressivamente acquisiti, dall’altra aleggia una generalizzata sensazione che altrettanto non sia accaduto per gli effetti collaterali. Per dare concretezza alla sensazione, si è pensato che un buon approccio potesse essere quello di misurare la presenza delle donne nei comitati di direzione. A tal proposito, si è esaminato un campione costituito dalle 50 principali società quotate, rappresentative di vari settori di business. I dati emersi sono implacabili, in quanto ci dicono che, se la presenza femminile nei CdA supera il 41%, nei comitati esecutivi si ferma al 13,7% rispetto alle 764 posizioni prese in esame. Uno smacco. Che diventa pesante quando si rileva che del centinaio di top manager considerate, nessuna ricopre la posizione di Ceo. Si tratta indubbiamente di un tema critico e di grande attualità. E le prospettive di avere in tempi rapidi donne a capo di aziende rilevanti non paiono particolarmente “rosee”, in quanto, come si evince dai dati raccolti, le manager di prima linea vengono spesso destinate a ricoprire ruoli funzionali specialistici e solo il 12% del campione ricopre posizioni gestionali di business. Certo che risulta gratificante riportare direttamente al Ceo e formativo essere partecipi dei principali processi decisionali, ma ruoli troppo verticali non facilitano la maturazione della giusta rotondità manageriale. D’altra parte, il dover garantire una corretta gestione aziendale non consente di fare particolari sconti sul livello di competenze necessarie, anche a fronte di pressioni verso una più bilanciata politica di parità di genere. È comunque indubbio che nel corso degli ultimi anni il top management aziendale, stimolato dai CdA e da esempi virtuosi di altri Paesi, abbia portato avanti politiche di maggiore allargamento della presenza delle donne nelle posizioni manageriali sia attraverso sviluppi interni, che attraverso inserimenti esterni, sollecitando i propri head hunters a dare priorità alle candidature femminili. Tuttavia, nonostante gli sforzi e le dichiarazioni di buona volontà, la concentrazione delle leve gestionali nelle mani degli uomini rimane difficile da intaccare e il farlo richiede energie fresche e determinate. A tal proposito, analizzando l’età media dei detentori delle posizioni, parrebbe che per le generazioni X (’65/’79) e millennials (’80/’95) il ricambio generazionale rimanga un obiettivo tutt’altro che acquisito.

DATI IMPLACABILI
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Criticità ampiamente riconosciuta, ma nei fatti accettata. Evidenziando un’intrinseca debolezza nel sistema manageriale italiano che apparentemente non ostacola, ma nello stesso tempo non favorisce, l’accesso alle posizioni chiave delle giovani figure femminili. Problema ampiamente discusso in vari consessi, dove usualmente si concorda che la soluzione richieda un significativo cambio culturale, senza peraltro definire chi dovrebbe farsene carico. E così si rimanda il tema a chi oggi lo sta già interpretando con naturalezza. E cioè a quelle nuove leve che, affacciandosi al mondo del lavoro condividono, completamente scevri dalle tematiche di parità di genere, principi aggreganti quali: la valorizzazione dei ruoli manageriali fondata più sui contenuti che sulla dimensione del potere, la ricerca di opportunità di carriera modulata sulle proprie esigenze di vita privata, il riconoscimento dell’autorevolezza del comando basato sulle competenze e sulla capacità di una guida equa e trasparente. La prospettiva è promettente, ma la tempistica è preoccupante. E demotivante per chi già ora preme per vedersi riconosciuto un ruolo di maggiore rotondità gestionale. Da qui l’evidente necessità di dare un concreto impulso alle carriere delle donne, con le modalità che ogni azienda ritenga più opportune in base alla propria cultura e settore di attività. Senza dimenticare che uno strumento di particolare efficacia è rappresentato dai piani di successione. Che può trovare un’immediata applicazione quando, in occasione della nomina di un nuovo Ceo, gli venga esplicitamente richiesto dal CdA di formare nel corso del proprio mandato, almeno una figura femminile da inserire a pieno titolo nella lista dei suoi potenziali successori. Trattasi di un KPI sfidante.

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Presidente onorario Eric Salmon & Partners;
Professore ordinario corporate governance, Università Bocconi

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