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Corte costituzionale: l’uomo non può revocare il consenso alla paternità dopo la fecondazione assistita

Il divieto per l’uomo di fare marcia indietro non lede il diritto al rispetto della vita privata e familiare nè crea una disparità di trattamento uomo donna

di Patrizia Maciocchi

4' di lettura

Dopo la fecondazione assistita dell’ovulo, l’uomo non può revocare il suo consenso alla paternità. Un divieto che non lede il diritto al rispetto alla vita privata e familiare, fissato dall’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, né mette in atto una irragionevole disparità di trattamento tra l’uomo e la donna. La Corte costituzionale, con la sentenza 161/2023 (redattore Luca Antonini), si esprime sul tema della procreazione medicalmente assistita. E salva la previsione contenuta nella legge 40/2004, considerando non fondata la questione di legittimità sollevata dal Tribunale ordinario di Roma. Per il giudice delle leggi non è irragionevole il bilanciamento messo in atto dal legislatore nell’articolo 6, comma 3, ultimo periodo, della legge n. 40 del 2004. Una norma che rende possibile, per effetto della crioconservazione, la richiesta dell’impianto degli embrioni non solo a distanza di tempo ma anche quando si è disgregato il progetto di coppia, come avvenuto nel caso esaminato dal giudice remittente, in cui dopo la separazione l’uomo aveva revocato un consenso validamente prestato.

La possibilità della crioconservazione

La Consulta concorda con il Tribunale sul contesto normativo profondamente diverso nel quale opera oggi la norma che impone l’irrevocabilità del consenso dopo la fecondazione dell’ovulo. La legge 40, in origine, prevedeva infatti che il trasferimento in utero degli embrioni prodotti – in un numero non superiore a tre – dovesse avvenire entro pochissimi giorni del ciclo della loro sopravvivenza. L’ipotesi della loro crioconservazione, in linea generale vietata, era quindi un’evenienza del tutto eccezionale, consentita solo «per grave e documentata causa di forza maggiore relativa allo stato di salute della donna non prevedibile al momento della fecondazione» e in ogni caso l’impianto si sarebbe dovuto realizzare «non appena possibile». Un quadro nel quale era ben difficile che nella coppia avvenissero stravolgimenti tali da far venire meno le condizioni presenti al momento dell’accesso alla Pma e al momento dell’impianto in utero. Dopo gli interventi della Corte la situazione si è ribaltata ed il no alla crioconservazione è l’eccezione.

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Il ripensamento dopo la fine dell’unione

Nel caso esaminato dal Tribunale capitolino la donna aveva richiesto l’impianto dell’embrione crioconservato, malgrado nel frattempo si fosse separata. Il suo ex si era opposto ritirando il consenso precedentemente prestato, ritenendo di non poter essere obbligato a diventare padre. Il giudice ha quindi sollevato la questione di costituzionalità in riferimento alla suddetta norma che stabilisce l’irrevocabilità del consenso. Pur riconoscendo che la norma «si è venuta a collocare al limite di quelle che sono state definite “scelte tragiche” , in quanto caratterizzate dall’impossibilità di soddisfare tutti i confliggenti interessi coinvolti nella fattispecie», la sentenza ha evidenziato che l’irrevocabilità del consenso bilancia i diversi interessi in gioco. Ad avviso della Consulta il divieto di ripensamento, naturalmente per il solo uomo, non comporta una disparità di trattamento, e non si discosta da quanto avviene nel caso dell’interruzione di gravidanza, scelta sul quale l’uomo non può influire.

La salute della donna

L’accesso alla Pma - spiega il giudice delle leggi - comporta infatti «per la donna il grave onere di mettere a disposizione la propria corporalità, con un importante investimento fisico ed emotivo in funzione della genitorialità che coinvolge rischi, aspettative e sofferenze, e che ha un punto di svolta nel momento in cui si vengono a formare uno o più embrioni. Corpo e mente della donna sono quindi inscindibilmente interessati in questo processo, che culmina nella concreta speranza di generare un figlio, a seguito dell'impianto dell'embrione nel proprio utero. A questo investimento, fisico ed emotivo, che ha determinato il sorgere di una concreta aspettativa di maternità, la donna si è prestata in virtù dell’affidamento in lei determinato dal consenso dell’uomo al comune progetto genitoriale». Inoltre, «se è pur vero che dopo la fecondazione la disciplina dell’irrevocabilità del consenso si configura come un punto di non ritorno, che può risultare freddamente indifferente al decorso del tempo e alle vicende della coppia, è anche vero che la centralità che lo stesso consenso assume nella Pma, comunque garantita dalla legge, fa sì che l’uomo sia in ogni caso consapevole della possibilità di diventare padre; ciò che rende difficile inferire, nella fattispecie censurata dal giudice a quo, una radicale rottura della corrispondenza tra libertà e responsabilità».

Lo stato di figlio

La Corte precisa che il consenso prestato in base alla legge 40 ha una portata diversa e ulteriore rispetto al “consenso informato” al trattamento medico, «in quanto si è in presenza di un atto finalisticamente orientato a fondare lo stato di figlio». In questa prospettiva il consenso, manifestando l’intenzione di avere un figlio, esprime una fondamentale assunzione di responsabilità, che riveste un ruolo centrale ai fini dell’acquisizione dello status filiationis. Il consenso dato alla pratica della procreazione medicalmente assistita, il quale diviene irrevocabile dal momento della fecondazione dell’ovulo, comporta una specifica assunzione di responsabilità riguardo alla filiazione, che si traduce nella attribuzione al nato dello stato di figlio a prescindere dalle successive vicende della relazione di coppia.

Alla Corte costituzionale non sfuggono tuttavia «la complessità della fattispecie e le conseguenze che la norma oggetto del presente giudizio, in ogni caso, produce in capo all’uomo, destinato a divenire padre di un bambino nonostante siano venute meno le condizioni in cui aveva condiviso il progetto genitoriale».
Uno status di genitore che «comporta una modifica sostanziale dei diritti e degli obblighi di una persona, idonea a investire la maggior parte degli aspetti e degli affetti della vita».
La Consulta è « altrettanto consapevole che il panorama del diritto comparato mostra soluzioni anche molto diversificate, sia a livello legislativo che giurisprudenziale».

La Pma negli altri stati

Tra queste, ad esempio la Corte israeliana ha subordinato la possibilità dell’impianto a determinate condizioni attinenti la responsabilità genitoriale (a tale decisione si è di recente ispirata la Corte costituzionale della Colombia, sentenza 13 ottobre 2022, T-357/22, che, in una vicenda analoga, ha permesso l’assimilazione del padre a un donatore anonimo).«È evidentemente la consapevolezza - si legge nella sentenza - di trovarsi di fronte a una scelta complessa, che coinvolge interessi chiaramente antagonisti, a indurre gli ordinamenti ad adottare soluzioni differenti, che riflettono le precipue caratterizzazioni che in essi assumono i principi costituzionali coinvolti». La Corte costituzionale chiarisce infine che spetta comunque al legislatore, il compito di cercare un punto di equilibrio nel rispetto della dignità umana, di un ragionevole punto di equilibrio «eventualmente anche diverso da quello attuale, fra le diverse esigenze in gioco in questioni che toccano temi eticamente sensibili».


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