le vie della crescita

Dopo il Pil gli investimenti sono la partita in Europa

di Alberto Quadrio Curzio

(Ansa)

4' di lettura

La crescita del Pil nel secondo trimestre del 2017 dell’1,5% sullo stesso trimestre 2016 e dello 0,4% sul primo trimestre del 2017 è una buona notizia che conferma molti altri dati su export,produzione industriale, occupazione.Le opinioni sono però discordi perché si passa dall’ottimismo sui dati alla loro svalutazione in quanto non abbiamo ancora recuperato i livelli precrisi ;dall’apprezzamento per le politiche dei Governi Renzi-Gentiloni alla loro svalutazione perché la nostra ripresa sarebbe al traino e in ritardo su quella europea. L’elenco delle opinioni è lungo anche perché il rumore elettorale sovrasta le valutazioni oggettive tra le quali spicca quella del ministro dell’Economia.

Il sentiero stretto

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Con pacata competenza e concretezza Pier Carlo Padoan ha dato invece una rappresentazione realistica della nostra situazione economica:quella del «sentiero stretto» che in inglese è anche il titolo della Newsletter del Mef per presentare all’estero l’Italia.Pochi giorni fa la valutazione del ministro è stata approfondita su queste colonne in una serrata intervista (si veda Il Sole 24 Ore del 3 agosto) dove emerge che l’Italia dal 2014 ha camminato su un sentiero impervio e ora si trova su uno meno difficile ma pur sempre in salita. Padoan ritiene che il passo potrebbe adesso accelerare rafforzando selettivamente le riforme strutturali italiane nel rispetto dei vincoli di bilancio. Il ragionamento sull’Italia di Padoan si completa anche con la sua istanza di ammodernamento delle politiche europee perché non basta l’attenuazione dell’euroscetticismo con il consolidarsi della ripresa.Concentriamo la nostra attenzione sulla complementarietà tra Italia ed Europa per gli investimenti prendendo spunto dalle indicazioni di Padoan ma con libera interpretazione. Senza mai dimenticare che l’Italia ha sofferto la peggiore crisi del dopoguerra a causa della quale nei sei anni dal 2008 al 2013 abbiamo perso quasi 9 punti di Pil con un aumento del tasso di disoccupazione di 6 punti percentuali e con un calo di quasi 5 punti percentuali nel rapporto tra investimenti e Pil.

Investimenti e razionalità industriale

Concordiamo con Padoan che le misure dei nostri Governi dal 2014 hanno contribuito all’uscita dalla crisi anche sfruttando abilmente i margini di bilancio concessi dagli impegni europei e il sostegno dalla Bce in termini di minori interessi sul nostro abnorme debito pubblico.

Gli investimenti delle imprese industriali hanno svolto un ruolo importante spinti da vari fattori: le misure fiscali via via potenziate nei tre anni passati fino all’iper-ammortamento al 250% e al piano Industria 4.0; il traino delle esportazioni dove le imprese manifatturiere italiane hanno mantenuto surplus commerciali forti e in molti casi crescenti anche durante la crisi con una capacità di innovazione straordinaria.

Gli investimenti pubblici e quindi le infrastrutture hanno molto sofferto nella crisi ma dal 2016 c’è stata una svolta sia per fattori procedurali sia per la flessibilità concessa dalla Ue su questo capitolo sia per le modifiche al patto di stabilità interno. È positivo che un recente Dpcm ha varato un piano da 47 miliardi di investimenti pubblici da realizzare in 25 anni di cui 20 miliardi andranno alle infrastrutture (rete ferroviaria, Anas ecc) e 8 alla messa in sicurezza del territorio. È anche apprezzabile qualitativamente l’allegato III al Def 2017 sui fabbisogni e i progetti di infrastrutture fino al 2030. Rimane però difficile capire quanto è investibile annualmente. Gli investimenti fissi lordi delle amministrazioni pubbliche dovrebbero crescere dal 2017 al 2020 da 36 miliardi a quasi 40. Stiamo dunque migliorando ma alcune stime internazionali sulle nostre necessità di infrastrutture arrivano fino 64 miliardi di dollari annui fino al 2040!

Dunque, stante i nostri vincoli di bilancio, dobbiamo supplire alla limitata quantità con la velocità, la qualità e l’intervento europeo.

Investimenti ed Euro-innovazioni

Il richiamo all’Europa ci porta all’attualità dell’inserimento nei Trattati europei del Fiscal compact.Una eventuale opposizione dell’Italia sarebbe velleitaria sia perché l’Italia dal 2012 ha il vincolo del pareggio di bilancio in Costituzione sia perché il nostro debito pubblico non ci lascia molti gradi di libertà.

Meglio allora adottare un mix di politiche alternative alle quali lo stesso Padoan accenna nell’intervista.

Una linea è il “governo” del Fiscal compact con revisioni interpretative già partite per iniziativa italiana sul calcolo dell’output gap (distanza fra crescita potenziale ed effettiva) su cui si determina la correzione del deficit. Nei tre anni passati, Padoan ha così “estratto” molto senza rotture e per questo la correzione di finanza pubblica del 2018 sarà più leggera di quanto preventivato stante un incremento del Pil tra l’1,3% e l’1,5%. Se poi i parametri di bilancio venissero calcolati triennalmente, come propone Padoan, e non annualmente aumenterebbe la flessibilità senza urtare le preoccupazioni tedesche.

La seconda linea è arrivare a una politica di bilancio parzialmente euro-unificata per spingere la produttività attraverso gli investimenti in infrastrutture materiali ed immateriali (ricerca e sviluppo). Padoan ripropone anche la “golden rule” per la quale, nell’accezione comune, certe categorie di investimenti vanno scorporate (in tutto o in parte) dal calcolo dei deficit.

La terza linea è quella di creare o potenziare fondi europei. Un esempio recente è quello per gli investimenti strategici del Piano Juncker dove l’Italia ha avuto i maggiori finanziamenti con 5,4 miliardi che si stima attiveranno 33 miliardi di investimenti. Esistono già altri Fondi operanti a basso regime tra cui il Fondo salva Stati che a noi piacerebbe trasformare in Fondo per un debito pubblico della Uem.

Euro-formazione professionalizzante

Ci vorrebbe adesso un Fondo europeo per la formazione euro-professionalizzante di giovani dove convogliare, su garanzie pubbliche, anche risorse private. L’Europa parla molto di giovani ma investe poco sugli stessi.

Per l’Italia il Fondo sarebbe cruciale perché soffriamo troppo per la disoccupazione e la disaffezione giovanile che in parte sarà riassorbita dal taglio permanente del cuneo fiscale per l’assunzione di giovani a tempo indeterminato promesso da Padoan.

Per la Germania sarebbe nobile diffondere gli standard formativi professionalizzati che hanno fatto anche il successo della sua industria. Quello che ai tedeschi non piace è la rivendicazione generica che, per il vero, non piace neppure a noi.

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