AnalisiL'analisi si basa sulla cronaca e sfrutta l'esperienza e la competenza dell'autore per spiegare i fatti, a volte interpretando e traendo conclusioni. Scopri di piùLa difficile strada del nuovo Ulivo

Dopo Roma e Torino Letta prende le distanze da Conte: noi siamo il Pd

La direzione del Pd prende atto del cammino in salita per la costruzione dell’alleanza: «Con il M5s possibili pezzi di strada insieme». Spinte tra i dem per il ritorno al proporzionale

di Emilia Patta

Assemblea Pd, Letta: "Nuovo centrosinistra che dialoga con M5S"

4' di lettura

«Le alleanze sono conseguenze di chi siamo, non definiscono la nostra identità. Guardiamo con interesse all’evoluzione dei Cinque Stelle e immaginiamo possibili pezzi di strada insieme ma in una logica di guida del processo: noi siamo il Pd e abbiamo l’ambizione di guidare questo Paese e l’ambizione di farlo con una coalizione di centrosinistra». E ancora: «Il tema vero è la nostra identità: se abbiamo un’identità debole, qualunque alleanza ci fagociterà. L’identità ha bisogno di iniziativa, e se l’iniziativa è forte cambia anche il quadro attorno a noi».

Da Roma a Torino: la delusione per il fallimento del dialogo con il M5s

Se non è un ben servito ai Cinque Stelle poco ci manca. Enrico Letta arriva alla direzione che avrebbe dovuto fare il punto sulle alleanze per le prossime comunali di ottobre sfiancato dalla trattativa inconcludente con il leader in pectore del nuovo movimento Giuseppe Conte (ma anche con il “reggente” Vito Crimi e con il ministro degli Esteri Luigi Di Maio) e deluso dal doppio schiaffo di Roma e Torino, le due città in cui governano le sindache pentastellate Chiara Appendino e Virginia Raggi. Nel capoluogo piemontese, nonostante Appendino avesse annunciato per tempo la sua non ricandidatura, non si è riusciti a convergere su una personalità civica come il rettore del Politecnico Guido Saracco e la stessa Appendino, che ora sembra averci ripensato sul suo passo di lato, ha escluso anche accordi tra primo e secondo turno. Nella Capitale è andata come è andata: il pressing del Pd affinché il governatore del Lazio Nicola Zingaretti scendesse in campo contro Raggi è fallito per l’ostilità del M5s, che ha minacciato di far saltare l’accordo appena raggiunto in Regione con l’ingresso in Giunta delle due esponenti pentastellate Roberta Lombardi e Valentina Corrado. Con la conseguenza che il candidato dem Roberto Gualtieri parte azzoppato da un stop di due mesi in attesa del sì di Zingaretti che non è arrivato.

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I dubbi sul ruolo di Conte, comandante «in pectore» senza truppe

Su entrambi i fronti Conte aveva garantito. E il punto è proprio questo: Letta e i dirigenti del Pd hanno toccato con mano nelle ultime settimane il caos in cui è precipitato il M5s, tra un passato rappresentato da Davide Casaleggio e la piattaforma Rousseau che non si riesce a superare e il futuro del nuovo M5s ecologico ed europeista a guida Conte che stenta a prendere corpo. Tanto che non è dato sapere se e quando potrà avvenire la votazione degli iscritti al movimento per cambiare lo statuto e incoronare finalmente l’ex premier capo politico perché la lista degli iscritti è detenuta da Casaleggio che non la vuole cedere. Mentre il tutto è in mano ai tribunali, con i tempi lunghi della giustizia, e la scissione in due tronconi è quasi realtà in Parlamento con l’imminente nascita del gruppo di espulsi e fuoriusciti contrari al governo Draghi e vicini alla galassia Rousseau e ad Alessandro Di Battista.

La presa di distanza di Letta: noi siamo il Pd, le alleanze vengono dopo

Letta, a differenza di Zingaretti prima di lui, non ha mai pensato ad un’alleanza strutturale con il M5s bensì a un dialogo del centrosinistra a guida Pd (più la sinistra di Leu e il mondo liberaldemocratico costituito dai Radicali di Più Europa, da Azione di Carlo Calenda e anche dalla renziana Italia Viva) con il M5s in vista delle prossime elezioni politiche. Dopo due mesi dalla prima direzione del neosegretario e dopo il fallimento della trattativa nelle grandi città in vista delle comunali la distanza si è accentuata. E con la distanza è cresciuta la sfiducia. Questo fatto politico ha ricaschi su due fronti importanti: l’elezione del successore di Sergio Mattarella il prossimo anno e il sistema elettorale con cui si tornerà al voto nel 2023.

Ora più difficile una «maggioranza Ursula» per il Quirinale

Sul primo punto è chiaro che il disegno iniziale del Pd, ossia spingere da un parte affinché Mario Draghi resti a Palazzo Chigi per garantire il varo delle riforme che devono accompagnare il Pnrr e lavorare dall’altra parte ad una maggioranza Ursula (M5s, Pd, Forza Italia e i partiti centristi) per l’elezione del prossimo Capo dello Stato, risulta più sbiadito di due mesi fa. Eleggere il Capo dello Stato senza la Lega (a questo, in fondo, puntavano fin dall’inizio i tanti scontri ingaggiati da Letta con Matteo Salvini) presupporrebbe infatti una coesione granitica di tutti gli altri partiti della maggioranza e soprattutto del partito che esprime tuttora il primo gruppo parlamentare nonostante le fuoriuscite e le scissioni, appunto il M5s. Che coesione granitica non ha né sembra avviato ad averla a breve. Tutto da rifare dunque, mentre avanza l’ipotesi di una rielezione di Mattarella sul “modello Napolitano” nonostante l’interessato abbia già dichiarato pubblicamente di considerare il suo settennato non rinnovabile.

Le spinte dem per un ritorno al proporzionale: non leghiamoci ai 5 Stelle

Sul secondo punto, quello della riforma elettorale, Letta ha segnato da subito una forte discontinuità con Zingaretti ribadendo la sua preferenza per il sistema maggioritario (Mattarellum, ad esempio) e dunque per le coalizioni pre-elettorali. Ma è chiaro che con potenziali alleati così poco affidabili come i Cinque Stelle - è il ragionamento che da più parti si comincia a fare nel Pd - sarebbe meglio il proporzionale: ognuno potrebbe giocare la sua partita per poi convergere in Parlamento dopo il voto. In queste ore, nell’ambito dei lavori della direzione, si sono espressi in tal senso esponenti della minoranza dei Giovani turchi e anche il grande sponsor dell’alleanza con Conte Goffredo Bettini: «Sono sempre stato per un sistema maggioritario ma il proporzionale rispetto alla strategia in campo è più consono». Più consono per il centrosinistra, che potrebbe presentarsi alle urne con l’anima centrista autonoma (Calenda, Radicali e Renzi), e più consono per il M5s (Giuseppe Brescia, presidente della prima commissione della Camera, non a caso lo rilancia). Ma certo non più consono per il centrodestra che, unito, con l’attuale Rosatellum basato in parte sui collegi uninominali e quindi sull’alleanza coalizionale può vincere le prossime elezioni.

Il bagno di realtà del segretario: sul sistema di voto no a convenienze di parte

E Letta? Il segretario non chiude più la porta al proporzionale, mettendo come unico paletto il no alle liste bloccate, ma invita tutti a un bagno di realtà: «In questo momento una discussione sulla legge elettorale sarebbe un modo di rappresentare il Parlamento sfasato rispetto alle esigenze della nostra società - dice -. Ritengo comunque che la questione della legge elettorale vada scissa rispetto alle convenienze del momento. Il cambio può avvenire solo nell’ambito di una larga intesa, intesa che non può essere interpretata come una nostra convenienza». Il meno che si possa dire è che è troppo presto. Tra due anni chissà.

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