Dorothy Bohm: il segreto è negli occhi di chi guarda
Pioniera della fotografia femminile, per otto decadi ha ritratto lo spettro dei sentimenti e raccontato i grandi cambiamenti sociali. A 97 anni, sta vivendo una nuova notorietà.
di Aimee Farrell
6' di lettura
«Penso che nessun altro fotografo abbia iniziato come ho iniziato io», dichiara subito Dorothy Bohm. Sguardo fermo, capelli bianchi pettinati con cura, è seduta nel soggiorno della sua casa di Hampstead, non lontano da dove è sepolto il pittore John Constable, a nord di Londra. A 97 anni è il momento di fare dei bilanci. «Ho avuto una vita piena», racconta. «Lascio una storia per immagini: 32 Paesi, 20 libri, 26 mostre». L'opera di Bohm, sviluppata nel corso di otto decenni, spazia dagli still life ai ritratti, dai reportage ai documentari sociali, immortalando – prima in bianco e nero e poi a colori – quelli che lei definisce «momenti di transizione poetici e misteriosi».
Nonostante sia una delle fotografe viventi più prolifiche d'Inghilterra, non è molto nota al di fuori della cerchia degli appassionati. Ma le cose stanno cambiando. A giugno, alla MK Gallery di Milton Keynes (fino al 25/9) è stata inaugurata una rassegna dedicata alla street photographer statunitense Vivian Maier, la prima di questo genere in Gran Bretagna. Da febbraio a maggio, il Brighton Museum ha ospitato una retrospettiva della fotografa 96enne Marilyn Stafford, la più ampia mai realizzata. E la National Portrait Gallery sta valutando l'acquisizione, in tempo per la riapertura prevista nel 2023, di una serie di lavori di Bohm.
La sensazione è che il ruolo e l'importanza delle fotografe, a lungo misconosciuta, stia finalmente emergendo. Negli anni, alcune di loro, stanche di essere relegate ai margini di una scena artistica patriarcale, hanno fondato collettivi, organizzato autonomamente mostre (@womeninstreet) e lanciato progetti di ricerca (@womeninphoto) per mettere in evidenza la ricchezza e la varietà del talento femminile contemporaneo. Secondo Anne Morin, curatrice della mostra su Maier, era ora che si assistesse a un cambiamento di prospettiva: «Ci vuole tempo perché le donne che lavorano con le immagini trovino il proprio posto nella storia della fotografia; finora è stata scritta dagli uomini. Ma non vuol dire che continuerà ad esserlo».
Bohm, a prescindere dal fatto di essere una donna, ha un ruolo importante in questa storia. Oggi, mentre si racconta, è facile intuire perché Martin Parr l'avesse soprannominata “l'irrefrenabile Dorothy Bohm”. Nata Dorothea Israelit, apparteneva a una famiglia ebrea di origini lituane: suo padre era un importante industriale di Königsberg, nell'allora Prussia Orientale (l'attuale Kaliningrad, in Russia). Quando, nel giugno del 1939, l'ha accompagnata a prendere un treno diretto in Inghilterra, aveva 14 anni. La Germania aveva appena invaso Memel, la città portuale dove la famiglia viveva da sette anni. «Sono arrivata in Gran Bretagna per colpa dei nazisti», dice con veemenza. «Altrimenti non sarei sopravvissuta», come molti dei suoi compagni di scuola.
Quel giorno, mentre erano fermi accanto al binario della stazione, il padre – che era anche un appassionato fotografo – si è tolto la Leica dal collo e l'ha messa a quello della figlia dicendole: «Potrà tornarti utile». «È buffo», racconta. «All'epoca non avevo alcun interesse per la fotografia.
Non mi piaceva nemmeno essere fotografata». Per i successivi vent'anni Bohm è rimasta lontana dalla sua famiglia. Molti dei suoi parenti sono stati mandati nei gulag in Siberia («Non li hanno presi i nazisti, ma i sovietici», spiega). Nel frattempo, lei si è ritrovata in collegio nel villaggio di Ditchling, nell'East Sussex. Ed è stato l'inizio di una lunga storia d'amore sia con il Sussex, dove ha poi comprato una fattoria nel 1960, sia con l'Inghilterra, che è diventata la sua terra d'adozione. Ha preso in mano la macchina fotografica su suggerimento di Sam, un cugino del padre. «Aveva notato che ero una buona osservatrice» e ha pensato che questa inclinazione potesse trasformarsi in un lavoro. Del resto, i soldi di famiglia erano finiti e Bohm era stata costretta a rinunciare al sogno di studiare medicina. Sam l'aveva portata nello studio della famosa ritrattista londinese Germaine Kanova, in Baker Street, e la visita si era rivelata cruciale. «Era adorabile e il suo lavoro meraviglioso. Da quel momento, ho deciso che ero fatta per la fotografia». Nel 1940, a 16 anni, Bohm lascia Londra per sfuggire al bombardamento aereo tedesco e va a studiare fotografia al Manchester College of Technology. Lì incontra il marito Luis, ora scomparso, che durante la guerra aveva perso la madre e la sorella: «Abbiamo iniziato entrambi dal nulla», dice. Insieme hanno avuto due figlie, Monica e Yvonne. A 18 anni Bohm già lavorava in uno studio fotografico locale, prima come stampatrice, poi come addetta ai ritocchi, infine come operatrice. Tre anni dopo, grazie a un prestito di 300 sterline, apre lo Studio Alexander in Market Street, a Manchester. È con il suo lavoro che mantiene Louis mentre finisce il dottorato. «A 21 anni ero io a portare i soldi a casa. Ne sono ancora molto orgogliosa», ammette.
La curatrice Flavia Frigeri ha incluso alcuni lavori di Bohm in un progetto triennale della National Portrait Gallery supportato da Chanel, che ha l'obiettivo di incrementare le artiste in collezione (al momento ferme al 12 per cento). Per Frigeri, Bohm è una figura importante all'interno di un gruppo di fotografe immigrate – incluse Laelia Goehr e Gerty Simon – che sono arrivate in Gran Bretagna negli anni Trenta e hanno dato il via a una nuova era della fotografia: «Hanno aperto i loro studi, sono diventate imprenditrici economicamente indipendenti. Hanno acquisito un senso di sé e della propria arte in un momento in cui la pittura e la scultura erano parte di un sistema prevalentemente maschile», continua Frigeri.
Ma è fuori dai confini del suo studio da ritrattista che Bohm ha iniziato davvero a farsi notare. Dopo la fine della Seconda guerra mondiale ha avuto modo di viaggiare, prima ad Ascona, la città svizzera sul lago Maggiore, poi a Parigi e a New York (a metà degli anni Cinquanta ha vissuto con il marito in entrambe le città), in Messico e in Sudafrica. «Fare ritratti è importante, ma quando ho iniziato a fotografare il mondo intorno a me è stato come aprire la finestra», ammette. Le sue prime immagini ritraggono un'Europa devastata dalla guerra, ma con scintille di umanità. Ragazzini che si aggirano nei parchi e agli angoli delle strade, madri sedute sui gradini di fronte a casa con i neonati in braccio. Ma anche luna park e circhi: dalle foto traspare la sensazione che la vita stia ricominciando.
L'obiettivo di Bohm non cattura solo il viavai quotidiano, ma le emozioni che vi si nascondono. «Dorothy Bohm sa che la sua macchina fotografica non si limita a guardare, ma è in grado di sentire», scrive nel 1970 Roland Penrose nell'introduzione al primo libro di Bohm, A World Observed. Il suo lavoro negli anni del dopoguerra può essere visto come un tentativo di comprendere il mondo in cui era stata catapultata in maniera tanto traumatica. «La fotografia – rivela lei – appaga il mio bisogno di impedire che le cose scompaiano». Negli anni Sessanta, Bohm ha documentato una Londra in rapido cambiamento. Le serie dedicate ai mercati, che ritraggono giocatori d'azzardo in giacca e cravatta, venditori solitari, pearly kings (membri di storiche
associazioni di beneficienza che indossano appunto abiti con bottoni di madreperla, ndr) e carri trainati dai cavalli, affascinano ancora oggi. «Viviamo in un'epoca in cui tutti fotografano, ma il fatto che lei lo facesse 60 anni fa dà il senso dell'importanza di queste immagini», prosegue Frigeri. «I suoi scatti di Londra raccontano l'intero spettro dei sentimenti umani, gioie e dolori».
Bohm non ama essere descritta come una street photographer: «Mi interessano le persone, non solo quelle che trovo in giro. Scatto per il piacere di guardare, e vivo ancora attraverso i miei occhi». Secondo Bohm, ai tempi, essere donna è stato un vantaggio per riuscire a fotografare la strada. A Londra come a Luxor, a Tel Aviv come a Tokyo «non venivo percepita come una minaccia, anche per il mio approccio empatico». Quando, nel 1969, le è stata dedicata la prima personale all'Institute of Contemporary Arts, il senso di ottimismo che pervadeva le fotografie della sua serie People at Peace ha creato un contrasto netto con la serie The Destruction Business di Don McCullin, esposta nella sala accanto. «Ho visto di tutto, ma non mi piace mostrare la bruttezza della vita, cerco di evidenziarne la bellezza», confida oggi.
Il successo della mostra all'ICA ha incoraggiato Sue Davies a istituire, nel 1971, la Photographer's Gallery, la prima galleria pubblica britannica a essere interamente dedicata al medium fotografico. Bohm ha partecipato alla sua fondazione e ne è stata direttrice associata per oltre 15 anni, durante i quali ha promosso giovani talenti come Martin Parr, ha conosciuto Bill Brandt e Lee Miller, che ha portato nuovamente alla ribalta. Non ha mai riservato, nella galleria, un'attenzione particolare alle fotografe, eppure è ben consapevole dei cambiamenti sociali degli ultimi 70 anni. «Nella mia lunga vita ho assistito agli incredibili progressi compiuti dalle donne», racconta. «È meraviglioso vedere quanti traguardi sono stati raggiunti: lascerò un mondo decisamente diverso». Ma in un mondo in cui, ogni giorno, vengono create miliardi di immagini, il suo auspicio è più poetico che politico: rallentate e prendetevi il tempo di vedere davvero ciò che vi circonda, conclude. Guardate con i vostri occhi, non attraverso lo smartphone.
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