Dublino: viaggio nella storia con Epic, il museo multimediale dell’emigrazione
Il percorso interattivo è stato premiato ai World Travel Awards come «miglior attrazione turistica europea»
di Enrico Marro
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«Ho provato, ho fallito. Non importa, riproverò. Fallirò meglio». Prima di diventare il manifesto della Silicon Valley e della sua turbocultura d’impresa, l'aforisma scritto nel 1951 da Samuel Beckett per il suo “Molloy” potrebbe tranquillamente rappresentare il manifesto dello spirito irlandese. Il mantra di una nazione che da sempre fa a pugni con miseria, persecuzioni e difficoltà, ma che riesce sempre a rialzarsi dal tappeto con orgoglio, coraggio, inventiva. O semplicemente disperazione. «Siamo un vibrante Paese sviluppato, ma abbiamo umili ricordi da Terzo mondo», spiegò Mary McAleese, prima donna presidente della Repubblica d'Irlanda.
Piegata dal 1845 da una carestia che uccise un milione di persone (pari al 10% della popolazione) costringendone un altro milione a emigrare, l’Irlanda dal punto di vista demografico non si è mai più ripresa: dagli oltre otto milioni di abitanti del 1841 si ritrova ancor oggi a meno di cinque milioni.
Questo nonostante un’economia brillante, in grado di superare con l’aiuto della Troika la pesante crisi finanziaria del 2010 tornando nel giro di pochi anni la Tigre Celtica invidiata da molti. Difficile oggi immaginare che ben 10 milioni di irlandesi abbiano dovuto lasciare la loro terra per cercare miglior fortuna all’estero.
Per celebrare fasti e dolori della sua storia, l’Isola di Smeraldo ha creato Epic, il museo dell’emigrazione irlandese, innovativo e originale esperimento di storytelling multimediale. Lo potete trovare nel cuore di Dublino, negli antichi magazzini ottocenteschi CHQ completamente rimodernati, a loro volta situati nei “Docklands” da cui durante la Grande Carestia partirono per le Americhe eserciti di poveracci, come testimonia la replica a grandezza naturale del vascello Jeanie Johnston.
Voluto e finanziato da Neville Isdell, emigrante irlandese che diventò presidente e ceo della Coca-Cola, allestito nel 2016 con un investimento di 15 milioni di euro, Epic ha una triplice missione: informare, insegnare ed essere storicamente inappuntabile. Lo fa attraverso 20 gallerie che si snodano su un’area di 4500 metri quadrati rappresentando un’immersione digitale, interattiva, ma soprattutto emozionante nell’epopea dell’emigrazione irlandese, con le sue mille storie di coraggio, disperazione e solidarietà, fino a sbocciare nella contaminazione mondiale di una “irish culture” declinata in mille forme: letteratura, musica, teatro, danza, politica, tecnologia, cinema, sport. Il percorso segue il destino degli emigranti irlandesi più famosi, dagli artisti agli scienziati, fino a leggendari fuorilegge western come Billy the Kid, ucciso a 21 anni dall'amico Pat Garret, o George “Machine Gun” Kelly, famigerato gangster durante il Proibizionismo.
Non è un caso che l’anno scorso, ai World Travel Awards, Epic abbia trionfato come “Miglior attrazione turistica europea”, battendo Buckingham Palace, il Colosseo e la Tour Eiffel. Lo storytelling di Epic è travolgente: un caleidoscopio di luci, suoni, musiche, scenografie, video, attività interattive ma anche documenti, manifesti, libri e filmati d’epoca. A disegnarlo è stato il celebre studio Events Communication, lo stesso che nel 2012 ha creato l'attrazione multimediale “Titanic Belfast” nel punto della capitale nordirlandese in cui venne costruito lo sfortunato transatlantico della White Star.
Le prime gallerie di Epic, “Migration”, rappresentano il momento degli addii, tra cataste di bagagli, banchi della dogana e timbri sui passaporti. Nell’area “Motivation” scopriamo la genesi dell’emigrazione irlandese: persecuzioni religiose e sociali, guerre, carestie. Nella grande sezione “Influence” si scopre invece come l’emorragia umana dall’Isola di Smeraldo abbia plasmato la cultura mondiale. Ogni galleria ha un layout diverso, con schermi sui muri di pietra degli antichi magazzini, proiezioni sui pavimenti e speciali postazioni audiovisive.
Si calcola che nel mondo siano 70 milioni le persone con sangue irlandese nelle vene: tra loro almeno 22 presidenti degli Stati Uniti, da Kennedy a Nixon, da Reagan ai due Bush fino allo stesso Obama. Ma non troverete solo nomi celebri tra le mura di Epic. Ci sono storie incredibili e sconosciute, come quella di Nellie Bly, prima giornalista investigativa della storia, che nel 1885 creò il genere dell'”inchiesta sotto copertura”: stupì il suo direttore, Joseph Pulitzer, fingendosi pazza e facendosi internare in un manicomio femminile che poi descrisse senza veli nei suoi articoli. Quattro anni dopo Nellie arrivò a compiere un giro del mondo in 72 giorni, per vincere una scommessa con Pulitzer oltre che per “battere” il bestseller di Jules Verne, all'epoca fresco di stampa. E che dire dell’irlandeseJames Barry, chirurgo dell’esercito britannico e veterano della battaglia di Waterloo, che in Africa effettuò il primo parto cesareo della storia, e che solo dopo la morte si scoprì essere in realtà una donna, Margaret Ann Bulkley? L'imbarazzo dell’esercito britannico fu tale da nascondere tutte le prove per oltre cent’anni.
Epic ha superato la boa del mezzo milione di visitatori in poco più di tre anni dall’apertura. All’interno della struttura c’è persino l’Irish Family History Centre, un moderno “centro genealogico” che fornisce un servizio professionale di riscoperta delle proprie radici, partendo dal cognome e arrivando fino all’analisi del Dna.
Chiuso per il lockdown, il museo riaprirà i battenti il 29 giugno, ma ha approfittato del coronavirus per un progetto inedito. In mesi dominati dal distanziamento sociale, Epic ha chiamato a raccolta gli irlandesi di tutto il mondo per raccogliere storie ed esperienze della loro vita durante la pandemia. Ne nascerà una nuova mostra, piena di quei racconti incredibili che scorrono assieme alla birra nelle vene dei “leprechaun”: storie leggendarie di paura, coraggio, speranza. E soprattutto orgoglio, magari condito da humor. Perché, come dice un antico proverbio dell’Isola, «al mondo ci sono solo due tipi di persone: gli irlandesi e quelli che avrebbero voluto esserlo».
Tre secoli di storia nel palazzo di Henrietta Street
Può un elegante palazzo settecentesco in stile Georgiano raccontare quasi tre secoli di storia di Dublino attraverso le tracce di chi l'ha abitato? E' la sfida che ha deciso di raccogliere «14 Henrietta Street», uno degli ultimi esperimenti di storytelling museale irlandese. Finito in rovina ma recuperato e accuratamente restaurato nei minimi dettagli dal Dublin City Council con un investimento decennale di 4,5 milioni di euro, il palazzo nel cuore elegante della città racconta semplicemente le storie di chi l'ha abitato nel corso dei secoli.
Si inizia con la costruzione nel 1749 e l’ingresso del primo proprietario, il nobile generale inglese Lord Viscount Molesworth, al’epoca 64enne, con la sua giovanissima moglie, la 15enne Mary Jenney Usher, che vollero un palazzo simile a un «vascello per mostrare spazi e ricchezze». Si continua con la crisi economica di metà Ottocento, quando l’edificio diventò una caserma per artiglieri, per proseguire con l’acquisto da parte del proprietario terriero Thomas Vance, che divise lo stabile in 19 miniappartamenti per darli in affitto a centinaia di poveracci. All’inizio del Novecento, ogni stanza del palazzo Georgiano ormai in rovina era stipata da intere famiglie di dozzine di persone, a lottare tra stenti, ratti e malattie all’interno di spazi neoclassici costruiti - ironia della sorte - per lo sfarzo della nobiltà.
«14 Henrietta Street» dà voce a mura dense di microstorie, dove sono state scritte lettere, preparati tè, nati bambini, consumati amori, accesi camini, spezzate pagnotte, spirati ultimi respiri. Vite vissute, insomma, che il percorso all’interno della trentina di stanze del palazzo Georgiano racconta attraverso documenti, oggetti, fotografie ma anche video proiettati a sorpresa tra gli arredi. Fino al secondo dopoguerra, all’arrivo di un relativo benessere all’interno dell’edificio, e poi nel 1979 all’abbandono dell’antico palazzo patrizio da parte dell’ultima famiglia di inquilini. Riaperto al pubblico nel 2018, il palazzo al 14 di Henrietta Street è uno dei più singolari esempi di storytelling museale nella città che ha fatto del raccontare la sua vocazione. Rigoroso, minimalista ed emozionante al tempo stesso.
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