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Due lavoratori italiani su tre soffrono di stress e burnout. Ma poco se ne parla

A dirlo un recente studio di GoodHabitz, che sottolinea una preoccupante lacuna nella comunicazione tra dipendenti e manager in materia di salute

di Gianni Rusconi

4' di lettura

In Italia una persona su due lotta in silenzio contro i problemi legati al malessere mentale legato alla propria occupazione e il 70% è alle prese con stress e burnout, con una quota non trascurabile (il 13%) che dichiara di aver sperimentato in modo (molto) forte questi due fenomeni. A dirlo un recente studio di GoodHabitz, piattaforma internazionale per la formazione aziendale, che sottolinea una preoccupante lacuna nella comunicazione tra dipendenti e manager in materia di salute psichica.

L’indagine, svolta in collaborazione con l’agenzia Markteffect, ha preso in esame oltre 24mila addetti a livello globale (il campione italiano era composto da circa 1.280 soggetti di età compresa tra i 25 e i 65 anni attivi lavorativamente) e ha cercato di fare luce sui vari aspetti che oggi stanno segnando l’evoluzione del benessere in ambito lavorativo.

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Il dato che balza all’occhio lo abbiamo già anticipato nell’attacco di questo articolo: solo il 50% delle persone si sente a proprio agio nel discutere all’interno dell’azienda di ansia, attacchi di panico e altri disturbi ed è una tendenza che rimarca la necessità di promuovere ambienti in cui le conversazioni aperte sulla salute mentale siano invece attivamente incoraggiate.

In Italia, così come in tutti i Paesi esaminati, la gestione dello stress emerge infatti come la principale abilità in grado di influire positivamente sul benessere (ne sono convinti il 35% dei rispondenti) al pari delle skill digitali, mentre sono ritenute quasi altrettanto importanti la capacità di comunicazione, il coaching e la leadership (nel 28% dei casi) e la gestione del tempo (26%).

Più formazione per i manager e per i team

Come possono essere lette queste percentuali? Innanzitutto come un chiaro indicatore della necessità (urgente) di una formazione completa - sia per i manager che per i team attivi in seno all’organizzazione - per sviluppare competenze da considerarsi cruciali per la risoluzione dei problemi. «I dati raccolti in Italia – ha osservato in proposito Paolo Carnovale, Country Director di GoodHabitz - parlano chiaro e confermano un fenomeno di crisi silenziosa per cui non si può chiudere un occhio e per cui diventa sempre più importante affrontarlo all’interno delle aziende. E per questo diventa essenziale investire nella crescita delle persone, aiutando ogni risorsa a raggiungere il proprio potenziale e costruendo così un ambiente di lavoro sano e positivo».

I dati, in effetti, lasciano chiaramente intuire una situazione di disagio. Il 22% dei lavoratori italiani si sente ancora (molto) a disagio nel parlare della propria salute mentale con i propri manager di riferimento mentre della metà di coloro che hanno comunicato al datore di lavoro i propri sintomi da stress, uno su tre (il 30%) afferma di non aver ricevuto supporto. Diventa pertanto vitale dare concretezza a progetti volti a creare un ambiente lavorativo sicuro, solidale e orientato all’ascolto (il 67% dei dipendenti auspica che i propri manager si occupino regolarmente del loro benessere), a cominciare dallo strutturare piani di formazione in grado non solo di prevenire il burnout dei collaboratori ma soprattutto di aiutare i leader aziendali a captare tali segnali e ad adottare comportamenti che ne minimizzino il rischio.

Prendersi cura del benessere psicofisico dei lavoratori

«Le competenze digitali – spiega in proposito Carnovale al Sole24ore - sono essenziali per svolgere il proprio lavoro ma le soft skill lo sono altrettanto per farlo in modo efficace e duraturo. Il fenomeno del quiet quitting ci dimostra in tal senso come le persone siano propense a lasciare il proprio posto di lavoro quando avvertono una mancanza di attenzione al loro sviluppo personale. L’investimento per l’aggiornamento tecnico dei talenti è percepito in molti casi come qualcosa di naturale, ma se si investe solo in questa direzione senza prendersi cura del loro benessere psicofisico, a lungo andare, questi ultimi saranno tentati di cercare un ambiente di lavoro più sano, portandosi via la propria esperienza e competenza».

L’impatto della crescita personale sul grado di felicità lavorativa è non a caso un altro dei temi messi sotto osservazione dallo studio. E i dati sono eloquenti anche in questo ambito: quattro dipendenti italiani su cinque vedono una correlazione tra l’essere felici mentre si svolge la propria professione e l’impatto sul proprio benessere generale, sottolineando il forte livello di interconnessione fra lavoro e vita privata. Il benessere finanziario/economico, come dicono anche altri studi in materia, continua a svolgere un ruolo fondamentale nella soddisfazione lavorativa (è di questo avviso il 74% degli intervistati) ma l’importanza dello sviluppo personale è in costante crescita (lo certifica l’81% dei dipendenti) e oltre tre quarti dei professionisti pensano che questo aspetto potrebbe aumentare la loro felicità sul lavoro.

A che punto siamo in Italia?

A che punto sono i manager italiani, viene dunque da chiedersi, nel percorso che si è reso necessario per essere più “vicini” ai propri collaboratori? A precisa domanda, la risposta di Carnovale è altrettanto esplicita: «Confrontandoci con migliaia di aziende diverse per settore, dimensione o struttura organizzativa, notiamo che la strada verso un mondo professionale aperto e trasversale nel nostro Paese è ancora lunga. Molti leader affermano di comprendere l’importanza di intraprendere questo percorso ma percentualmente sono ancora pochi quelli che hanno investito tempo nel formarsi in modo strutturato su questo tema». E i risultati, viene purtroppo da dire, si vedono.

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