Due madri per Maria Grazia Calandrone
La poetessa è in libreria con una narrazione autobiografica dal titolo “Splendi come vita”, per i tipi di Ponte alle Grazie
di Niccolò Nisivoccia
4' di lettura
Quanto dolore scorre nelle pagine di questa prima opera narrativa, dichiaratamente autobiografica, di una delle principali potesse italiane, Maria Grazia Calandrone: “Splendi come vita” è il titolo, l'ha pubblicata Ponte alle Grazie (222 pp., € 15,50), sulla copertina la foto della stessa Calandrone, poco più che neonata, in braccio alla sua madre adottiva, entrambe sorridenti.
La narrazione è tutta qui, potremmo dire, tutta centrata sul senso di un abbraccio, dato o non dato, trovato, perso, infine forse ritrovato anche se forse solo in assenza; e sul senso, più in generale, per estensione, degli abbracci fra noi e i nostri genitori o fra noi e i nostri figli, sui destini della vita che ne dipendono, sul significato delle nostre esistenze che a loro volta dal significato di questi abbracci, dati o non dati, molto dipendono, aldilà del senso che le nostre vite assumono poi come frutto di tanto altro – di ciò che siamo, degli incontri che facciamo, di quello che meritiamo o non meritiamo, nel bene come nel male.
La storia di sé
La storia di sé che Maria Grazia Calandrone racconta è una storia di cui avevano parlato le cronache degli anni sessanta: Maria Grazia, a soli otto mesi, era stata abbandonata su un prato di Villa Borghese, a Roma, dalla madre, Lucia, una giovane ragazza siciliana da cui era nata all'interno di una relazione clandestina con un uomo più grande di lei. All'epoca non esisteva il divorzio, e quel gesto di abbandono era stato soprattutto un gesto d'amore e di pietà: madre e padre si erano suicidati subito dopo, buttandosi nel Tevere, nella speranza che altri avrebbero cresciuto quella bambina.
Maria Grazia venne adottata da Giacomo Calandrone, che era un noto dirigente comunista, e da sua moglie Ione, insegnante di scuola, di origini siciliane come la madre naturale. Giacomo e Ione erano già cinquantenni, e Giacomo sarebbe morto quando Maria Grazia aveva solo undici anni.
Un libro sulle madri
Ma “Splendi come vita” è un libro sulle madri, non sui padri, e qui le madri sono due: la madre naturale e la madre adottiva. L'amore reciproco fra Maria Grazia e la madre adottiva è totale, nei primi anni, fino a quando Ione non rivela alla figlia la verità. Maria Grazia ha solo quattro anni, e non è nelle condizioni di elaborarla, ma quella di Ione era stata “una decisione anticipatoria, d'amore ansioso: aveva letto sul giornale la notizia del suicidio … di una diciottenne che, nel predisporre le carte per il proprio matrimonio, aveva scoperto d'essere stata adottata e si era tolta dalla vita”.
È questo il momento nel quale l'amore totale diventa il suo contrario, “Disamore”, e tutto da questo momento si confonde: Ione non riesce più a fidarsi dell'amore di Maria Grazia verso di lei, così come Maria Grazia, per non sentirsi ripudiata, non riesce più a dare alla madre altro da quello che presumeva potesse farla felice. In realtà il “Disamore” di Ione è il frutto di un disagio mentale, ma nessuno lo sapeva; e mentre lei si allontana, sempre di più, la madre naturale riprende terreno sotto forma di immagine ideale o sognata.
Come una ferita
“Splendi come vita” racconta tutto questo attraverso un narrare che potrebbe essere definito una ferita in sé stesso, sincopato e scandito com'è da brevissimi capitoli ai quali potrebbe essere riconosciuto quasi il carattere di altrettanti poemi in prosa, come se un'eco della poesia fosse comunque presente; e non provoca distanza il fatto che ciascuno dei protagonisti sia privo di nomi propri. Il padre e la madre adottivi sono semplicemente “Padre” e “Madre”, la madre naturale “Madremammavéra”. Ma è una presa di distanza puramente formale, senza la quale il dolore non potrebbe essere raccontato: e qualcosa, di questa gestione del dolore, ricorda certi toni di Agota Kristof.
Ma il dolore può trasformarsi in qualcos'altro
Eppure il dolore può sempre tramutarsi in qualcos'altro, e forse questo è il senso del libro intero. Lo ha detto benissimo Manuel Vilas, di recente, in una frase forte come un verso: tutto ciò che, una volta perduto, non è riuscito a distruggerci, per quanto abbia insistito, finisce prima o poi per diventare gioia. Forse anche il dolore può diventare gioia, così come la memoria dei futuri che immaginavamo e non si sono avverati può diventare nuove possibilità, nuova attesa, nuova speranza (quella che il sociologo Paolo Jedlowski chiama “memoria del futuro”).
Sì, forse alla fine Maria Grazia Calandrone è riuscita a fare pace con le sue due madri, a riconoscere a ciascuna l'amore che ciascuna ha saputo darle come poteva. Anche Maria Grazia, nel frattempo, è diventata madre: ed è questo il suo nuovo futuro, nel quale quello passato può trovare una sua riconciliazione, ora che anche la madre adottiva è morta. Forse alla fine le due madri arrivano perfino a coincidere in una figura sola, a metà fra sogno e realtà, se è vero che le ultime parole del libro, in forma di poesia tout court, sono una volta per tutte rivolte non più alla “Madre” o alla “Madremammavéra” ma semplicemente alla “mamma”. “Abbiamo solo il tempo della vita, mamma./ Nient'altro”, le dice Maria Grazia: “Vita/ abbandonata./ Vita/ di tutti./ Vita che torna,/ a tutti”.
loading...