Due paradigmi per la riforma fiscale dell’Unione
di Sergio Fabbrini
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Prima di Natale, Mario Draghi ed Emmanuel Macron hanno pubblicato un articolo per proporre la riforma delle regole fiscali europee. L’articolo si basa su un paper scritto da quattro economisti, due dei quali (Francesco Giavazzi e Charles-Henri Weymuller) consiglieri dell’uno e dell’altro capo di governo. Il dibattito sulla riforma del Patto di stabilità e crescita (PSC), avviato dalla Commissione europea pochi mesi fa, sta dunque producendo importanti contributi (tra cui il paper scritto da Giuliano Amato, Franco Bassanini, Marcello Messori e Gian Luigi Tosato). Quei contributi si pongono (talora implicitamente) all’interno di due modelli fiscali che è bene chiarire.
Il primo è il modello della “regolamentazione fiscale” ( fiscal regulation , secondo Mark Hallerberg) emblematizzato dal PSC. Esso consiste nella istituzionalizzazione di specifici criteri macroeconomici per regolare le politiche fiscali degli stati che fanno parte dell’Eurozona.
Quest’ultima nacque a Maastricht nel 1992 sulla base di un compromesso politico, prima che economico, tra la Germania che chiedeva la centralizzazione della politica monetaria e la Francia che rivendicava la decentralizzazione delle politiche fiscali. Il PSC fu introdotto (nel 1997-1999) proprio per limitare i confini entro cui la sovranità fiscale degli stati poteva essere esercitata. Dopo la crisi finanziaria del decennio scorso, quei confini furono ulteriormente ristretti, attraverso misure legislative e trattati intergovernativi. Gli stati membri dell’Eurozona sono rimasti formalmente sovrani sul piano fiscale, ma la loro sovranità è stata svuotata da regole fiscali sempre più stringenti e complesse. Regole gestite da organismi intergovernativi (Consiglio dei ministri economico-finanziari, Consiglio europeo dei capi di governo) che, in presenza di crisi con effetti redistributivi, hanno finito per dare vita a gerarchie di potere al loro interno. Di qui, le difficoltà incontrate dall’Eurozona ad uscire dalla crisi finanziaria del decennio scorso, di qui la decisione di sospendere quelle regole di fronte alle conseguenze economiche della pandemia di questo decennio. Se il PSC venisse reintrodotto nel gennaio 2023, come previsto, sarebbe impossibile affrontare le sfide gigantesche della doppia transizione ambientale e tecnologica. La proposta Draghi-Macron dice che il re è nudo. Ovvero che occorre riformare il PSC, dando vita (precisano i loro consiglieri) ad un’Agenzia europea cui trasferire il debito contratto dagli stati per affrontare la pandemia e adottando regole fiscali che consentano di scorporare dal calcolo del debito pubblico le spese per investimenti relativi alla doppia transizione. Si tratta di proposte importanti (già da tempo avanzate da Stefano Micossi e Mario Monti), che migliorano significativamente il modello della regolamentazione fiscale. Tuttavia, quest’ultimo non è il solo modello fiscale da considerare.
Infatti, il modello della regolamentazione fiscale è un’eccezione all’interno delle unioni monetarie. In nessun’altra unione monetaria è stato adottato qualcosa che assomigli al PSC. Tutte le unioni monetarie esistenti si sono consolidate perché sostenute da un’unione fiscale, cioè dalla capacità fiscale autonoma delle loro istituzioni centrali con cui compensare ai limiti della politica monetaria. Ed è questo il secondo modello (della fiscal capacity, sempre secondo Mark Hallerberg). La capacità fiscale del centro può variare, è estesa negli stati federali (come la Germania post-bellica) e limitata nelle unioni federali (come gli Stati Uniti). Tuttavia, non c’è un’unione monetaria che non preveda una doppia sovranità fiscale (nei singoli stati e nel centro). Ciò che cambia è il rapporto (quantitativo e qualitativo) tra di esse. Negli Stati Uniti della costituzione del 1787, ad esempio, il trasferimento al centro (su proposta di Alexander Hamilton nel 1790) del debito contratto dagli stati durante la Guerra di liberazione dagli inglesi non ha implicato l’abrogazione della sovranità fiscale di quegli stati (protetta dal X emendamento costituzionale). Tant’è che gli stati hanno continuato ad indebitarsi, fallendo uno dopo l’altro cinquant'anni dopo. Questa volta, però, il centro decise di non intervenire. Gli stati furono quindi spinti ad introdurre misure di auto-limitazione come il pareggio del proprio bilancio, così da tranquillizzare i mercati finanziari cui dovevano rivolgersi per avere prestiti. Il contenimento della spesa statale è stato quindi compensato da un incremento della spesa centrale, utilizzata, nel secondo dopo-guerra, per produrre beni pubblici federali. “Next Generation EU”, programma finanziato attraverso debito europeo garantito da tasse europee, va in questa direzione, ma solo in parte (come scrivono Andrea Boitani e Roberto Tamborini). Non solamente perché è un programma transitorio, ma perché i fondi vengono allocati agli stati per produrre beni pubblici nazionali, seppure coerenti con un programma europeo, e non spesi dalle istituzioni sovranazionali per produrre beni pubblici europei. È evidente, infine, che una capacità fiscale centrale (limitata ma indipendentemente dagli stati) non può essere gestita da istituzioni intergovernative.
Insomma, è necessario riformare il modello della regolamentazione fiscale, come propongono Draghi e Macron, ma non è sufficiente se non si dotano, nello stesso tempo, le istituzioni sovranazionali di una loro capacità fiscale autonoma. Individuando quindi forme di coordinamento verticale (per dirla con Marco Buti e Marcello Messori) tra i due modelli fiscali. Una mappa chiara può aiutare a fare un lungo percorso.
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