racconti da casa /3

È come quando hai partorito: che ci faccio qui?

Hai perso la tua normalità e non ne hai una nuova. Hai messo da parte lavoro/amici/aperitivi e non sai dire per quanto tempo. Un sacco di incognite a cui non sai rispondere. Analogie tra quarantene domestiche

di Elena Montobbio

2' di lettura

I primi giorni sono stati ovattati, carichi di domande, un guardarsi in giro – da muro a muro, da balcone a muro – per capire che cosa fosse questa nuova vita, quanto sarebbe durata, che cosa avrebbe portato. La sensazione, sinistra, simile a quella provata durante il post-parto, un momento mai facile nella vita di una donna. Quando torni a casa e ti sei lasciata alle spalle una vita che conoscevi, fatta di ritmi, lavoro, amici, aperitivi, cinema, serate sul divano a fare zapping senza mai guardare qualcosa veramente, telefonate lunghe quanto ti andava con le amiche.

Davanti a te, nel tuo orizzonte, ti ritrovi in men che non si dica – responsabile di un micro-essere umano che piange e non dorme – a essere chiusa tra le quattro mura domestiche (uscire i primi giorni sembra un miraggio, e ti domandi se mai sarai capace di spingerla, quella carrozzina, su un marciapiede). Hai perso i tuoi ritmi e non ne hai di nuovi, hai messo da parte gli aperitivi e non sai dire per quanto, alle amiche un saluto veloce ma migliaia di noiosissime foto del pargolo. In cambio, la televisione, quando riesci a tirare il fiato e ad accenderla, diventa per un po’ l'unico legame con la vita “fuori”.

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Come in quella di allora, nella clausura di adesso torna a volte, insistente, il richiamo della realtà che sta andando avanti anche se tu non la vedi. Allora, in un attimo di coraggio, prendi in mano il telecomando (che di solito ti serve per dare il via a un cartone animato) e cerchi un qualsiasi telegiornale (pazienza se su una rete che non avresti mai guardato per avere un po’ di notizie). Lo schermo, però, ha l'inesorabile potere di attrarre tuo figlio cinquenne, che arriva e sente parlare di migliaia di morti, di ospedali che devono scegliere chi curare, di un mondo che non sarà più quello di prima. «Come quando sei nato tu, amore mio», penso. Ma non lo dico, mai. In compenso, mi ritrovo a cercare risposte alle domande più varie, risposte che manco i migliori virologhi possono fornirti. Più facile spegnere tutto e ritornare a questa dimensione intima e intimista che è diventata la nostra quotidianità; le notizie le leggerò online più tardi.

Che poi, trascorsi i primi giorni, oggi come allora, alla fine se ne esce, e si impara a trovare nuovi equilibri. Solo che all'inizio non lo sai, che sarai capace: che sarai sempre tu, che sperimenterai altri ritmi, e che non saranno neanche male. Tornare indietro? Una vita senza questo figlio? Impossibile, inimmaginabile, intollerabile. Tornare indietro? Una vita senza Coronavirus fatta di abbracci, di aperitivi nei locali e di «sono in metropolitana, mi prude un occhio e chissenefrega me lo gratto»? Inimmaginabile adesso, intollerabile non crederci. E poi me le ricordo, le parole di mia zia: «Elena, abbi pazienza, dopo i primi quaranta giorni tutto sarà più facile».

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