È l’antagonismo centro-periferia a nutrire i populismi
di Carlo Bastasin
3' di lettura
L’emergere di leader e movimenti populisti in gran parte del mondo continua a essere interpretato con vecchi strumenti. La forza d’attrazione delle leadership autoritarie e la vecchia questione delle identità dei popoli sono rimaste nelle nostre teste come un’eredità del Novecento di cui sembriamo tutti ancora prigionieri. Come nel secolo passato prevalgono spiegazioni singole e totali: per alcuni è tornata la disuguaglianza di classe, per altri invece è riemersa la pulsione nazionalista. Purtroppo a forza di infilare sbrigativamente gli eventi storici dentro armature ideologiche si finisce per dar loro vita. Così, è tutto un fiorire di analisi impressionistiche sul ritorno delle patrie ma anche sulla debolezza degli Stati, sull’intrusione dell’Europa ma anche sulla sua debolezza. Provo a fornire alcuni spunti contro-intuitivi per cambiare queste pigre prospettive che sembrano dominare anche il confronto politico italiano in vista delle prossime elezioni.
Non esiste un populismo, ma molti e diversi. Se però esiste nei paesi occidentali qualcosa che li accomuna tutti, come fenomeni sociali e politici caratteristici degli ultimi venti anni, è il difficile adeguamento degli individui alla rapida trasformazione delle strutture economiche nell’era delle nuove tecnologie, del commercio globale e dello spostamento dall’industria ai servizi.
Rispetto a tale trasformazione industriale sono in atto due distinti tipi di reazione. Nelle regioni che per motivi geografici e storici sono ben inserite nelle catene produttive globali (Catalonia, Veneto, Lombardia, Great London, Olanda, Baviera e così via) la trasformazione ha provocato degli aggiustamenti per gli individui, tra cui l’accentuata mobilità e un’autonomia fonte di incertezza, che li ha resi insofferenti alle inerzie degli Stati d’origine e di chi ai loro occhi continua a vivere al riparo dalla concorrenza.
Nelle regioni alla periferia del cambiamento globale (Stati centrali degli Stati Uniti, vaste regioni della Russia, Nord dell’Inghilterra, Grecia, Mezzogiorno di Italia e Spagna, Germania orientale) si è sviluppata una sindrome di arretramento e talvolta di impotenza. In tutte queste regioni la trasformazione industriale è aggravata dal declino delle ingenti immobilizzazioni di capitale dell’industria pubblica degli anni 50-70 o dei bacini di materie prime ad alta intensità di lavoro, diventato metafora del carente supporto pubblico agli individui. Al tempo stesso, in quasi tutte queste regioni è più penosa, sia culturalmente sia geograficamente, la mobilità degli individui che finisce per implicare una perdita di radici e che accresce un sentimento di vittimistica nostalgia.
Non riconoscere le diversità nelle forme di insofferenza verso l’establishment – centro o periferia, troppa mobilità degli individui o troppo poca, domanda di isolamento o di assistenzialismo – significa lasciarli lavorare in modo sotterraneo. E lasciare che il disagio si aggreghi verso i due elementi più immobili e più mobili: lo Stato e gli immigrati. Creando un bersaglio comune, ma non un modo per risolvere i problemi da cui i disagi provengono.
Progressivamente le narrazioni sotterranee si rafforzano. Freud avrebbe visto nel caso catalano una forma di “narcisismo delle piccole differenze”, il cui sviluppo dà luogo a ostilità e rifiuto tra gruppi umani limitrofi. Un conflitto in cui paradossalmente la Catalonia si vede come centro e Madrid come periferia. Ma il silenzio sulle ragioni strutturali dei diversi disagi sociali finisce per erodere la fiducia nel meccanismo democratico attraverso il quale una maggioranza fa prevalere la propria visione del mondo su quella della minoranza. Da qui una tentazione autoritaria che si combina con il senso di essere vittime del sistema e con la sfiducia nella rappresentanza e nel negoziato.
Il conflitto tra centro e periferia è dunque più vasto e penetrante di quello che siamo abituati a vedere nell’Euro area. Lo si potrebbe applicare ugualmente a Kentucky e California, ma caratterizza in realtà l’aggiustamento di quasi tutte le grandi economie, sia al loro interno, sia nel contesto globale. La trasformazione dei servizi e dell’economia della conoscenza anziché togliere peso alla geografia, sta dando alla distinzione tra centro e periferia un carattere più marcato di gerarchia culturale. Nulla di tutto ciò, evidentemente, può essere risolto con la evocazione di identità novecentesche.
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