E l’Indice additò il Vate
di Armando Torno
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L’Indice dei libri proibiti (Index librorum prohibitorum) è quel catalogo di testi condannati in passato dalla Chiesa cattolica perché ritenuti, in diverse epoche e in molteplici situazioni culturali, contrari alla fede o alla morale. Le sue compilazioni fiorirono dal XVI secolo ma la questione risale ai tempi apostolici ed è presente anche nel medioevo. Taluni ricordano il decretum, per tradizione attribuito a papa Gelasio I (492-96), che contiene, tra l’altro, un elenco di opere religiose da considerare canoniche, una lista dei sinodi e degli scrittori ecclesiastici riconosciuti, ma anche l’indicazione dei testi da rigettare. Basterà poi aggiungere che nel Directorium inquisitorum del domenicano Nicolau Eymerich, scritto nella seconda metà del Trecento, si legge un elenco di opere – ben una quindicina di capitoli o paragrafi nell’edizione di Roma del 1587 - condannate o condannabili, diffuse anche prima dell’avvento della Chiesa.
Il problema di indicare quali libri potessero recare danno alla fede si pose dopo l’invenzione della stampa a caratteri mobili. Innocenzo VIII, nel 1487, con la costituzione Inter multiplices, ricorda la necessità di controllare il lavoro dei torcolieri e la diffusione di libri perniciosi per la fede o atti a suscitare scandalo; si prevedeva, detto in soldoni, un esame da parte della Chiesa delle opere destinate alla pubblicazione, la concessione esplicita del permesso di “impressione” (imprimatur), la distruzione dei libri non autorizzati ed eventuali pene per autori, stampatori e acquirenti. Con Paolo IV si pubblica nel 1557 un Index librorum prohibitorum (un solo esemplare è conservato alla British Library di Londra) che è una sorta di bozza del primo vero Indice che vede la luce nel 1559; quindi, facendo seguito al Concilio di Trento, Pio IV ne autorizza un altro nel 1564. Nel 1571 Pio V istituì appunto la Congregazione dell’Indice, che ne curò oltre quaranta edizioni. Incalzata dai tempi fu soppressa nel 1917, ma non del tutto, ché le sue competenze passarono al Sant’Uffizio. Soltanto dal 1966, con Paolo VI, perse valore giuridico: l’approvazione dell’autorità ecclesiastica verrà richiesta solo per alcune pubblicazioni, ovvero versioni della Sacra Scrittura, libri liturgici, catechismi eccetera.
L’Indice, modificato continuamente e aggiornato a seconda delle esigenze, non è riuscito a segnalare tutti i libri la cui lettura fu considerata dannosa ai fedeli; ne ha riportato soltanto alcuni, sui quali l’autorità ecclesiastica ha desiderato richiamare l’attenzione, sia per il pericolo che avrebbero rappresentato, sia per ragioni d’opportunità. Vale la pena, soffermandosi sulla sola letteratura italiana, consultare a tal proposito il documentato e acuto saggio di Matteo Brera, Novecento all’Indice, che nel sottotitolo spiega la materia trattata: Gabriele D’Annunzio, i libri proibiti e i rapporti Stato-Chiesa all’ombra del Concordato.
Il vate era tallonato senza requie dai censori ecclesiastici. L’8 maggio 1911, per fare un esempio, erano posti all’Indice tutti i suoi romanzi d’amore (Omnes fabulae amatoriae) e anche le Prose scelte per gli animi casti. Un decreto del Sant’Uffizio del 27 giugno 1928 segnalava «Reliquia opera», ovvero tragedie, commedie, misteri, romanzi, novelle, poesie che erano uscite successivamente, fidei et morum offensiva. D’Annunzio moriva il 1° marzo del 1938, ma il decreto di proibizione per Solus ad solam, uscito postumo nel 1939, fu istantaneo. D’altra parte, vi si narrava l’amore tra l’autore e la nobile e maritata Giuseppina Giorgi Mancini.
Brera analizza dettagliatamente la condanna del 1911, scrutando le fasi preparatorie, le carte dell’accusa, le trame sensuali poste sotto la lente. Scrive: «Le motivazioni della condanna, secondo l’antica consuetudine della Santa Sede di non divulgare le ragioni sottese a una proibizione libraria, andavano nella direzione di una consolidata linea ideologica: quella che postulava l’incapacità della quasi totalità dei lettori cattolici di interpretare in autonomia un libro pericoloso, senza che questo ne provocasse il decadimento morale» (p. 85). Brera va oltre. Considera anche la condanna di un dannunzista quale Guido Da Verona (Opera omnia recita il decreto del 21 aprile 1920); non trascura il fatto che Leila e Il Santo di Antonio Fogazzaro ebbero la stessa sorte, così come la cosiddetta “fogazzarite”. La censura colpì anche il fascismo: dal Catechismo del Balilla del 1924 al Razzismo di Giulio Cogni, uscito nel 1937 e messo all’Indice il 9 giugno di quello stesso anno.
Se Pio XI fu il papa del Concordato, non si deve dimenticare che sovente non approvò le politiche religiose di Mussolini e restò uno dei tenaci avversari delle leggi razziali (morirà il 10 febbraio 1939 e la sua reazione non ebbe il tempo di concretizzarsi). Brera è attento soprattutto al caso D’Annunzio e ai mille riflessi della sua opera; tuttavia, il suo saggio delinea le innumerevoli problematiche che si moltiplicarono tra il governo italiano e la Santa Sede nel periodo fascista. Molte storie si possono leggere dalle carte del Sant’Uffizio, che questo studioso ha compulsato attentamente.
In margine a tale studio è inevitabile ricordare che Alberto Moravia vedrà, con il decreto del 2 aprile 1952, all’Indice tutte le sue opere, così come toccò ai modernisti che in Italia erano rappresentati da Ernesto Buonaiuti. A quest’ultimo la condanna a Opera et scripta omnia si attuò con tre decreti: il 26 marzo 1924, il 28 gennaio 1925 e il 17 giugno 1944. Stiamo però parlando di un’altra storia e per scriverla si dovrebbe dar vita a un ulteriore studio. Forse troppo vasto.
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