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È con la memoria che si può far partire l’innovazione

Esattamente cento anni fa, nel celebre saggio che si intitola Storia dell’utopia, Lewis Mumford distingueva tra utopia della fuga e utopia della ricostruzione

di Giuseppe Lupo

3' di lettura

Esattamente cento anni fa, nel celebre saggio che si intitola Storia dell’utopia, Lewis Mumford distingueva tra utopia della fuga e utopia della ricostruzione. «Nell’una – scriveva – costruiamo impossibili castelli in aria; nell’altra consultiamo un geometra, un architetto, un muratore, e iniziamo la costruzione di una casa che soddisfi le nostre necessità fondamentali altrettanto bene di quanto sono capaci di soddisfarle le case di pietra e di calcestruzzo». Per quanto possa condurci nel disincanto, la seconda soluzione è sicuramente quella destinata a dare i frutti migliori sia perché fondata sulla concretezza di ciò che è razionale, sia perché evita il rischio di sognare la “città del sole”. Bisogna partire dalla distinzione di Mumford per comprendere il nuovo libro di Antonio Calabrò: L’avvenire della memoria (Egea), un ossimoro in apparenza, ma che rivela la natura di un’addizione. Dentro c’è lo sguardo su un certo Novecento con cui tuttavia convive il desiderio di proiettarsi verso un tempo edificato più che sognato. La modernità resta il mito di un’epoca felice, ma il suo valore non si svela attraverso il giardino di Eden. Per fortuna non tutto ciò che è avvenuto nel secolo passato assomiglia al racconto che fece Orwell in 1984 (1949) e anche in un momento come l’attuale, appena dopo la cesura della pandemia, occorre mettere da parte la tentazione della fuga verso modelli di società irraggiungibili e fare appello invece ad architetti, geometri, muratori, chiunque sia in grado di riedificare dalle rovine un futuro dove siano cancellati gli errori (se ce ne sono stati) che ci hanno portato qui. I tentativi non mancano e sono tutti contrassegnati da un lessico comune: ripartenza, ripristino, ritorno alla normalità, senza specificare però come sia composta la nozione di normalità. L’avvenire della memoria può assumere diversi significati: dialogo fra tradizione e futuro, alleanza tra identità e atteggiamento pragmatico, posizione di equilibrio tra rielaborazione e rettifica di un’esperienza comune. Ma è volontariamente un calco letterario. Da una parte rimanda a Il futuro ha un cuore antico, libro in cui Carlo Levi, nel 1956, narra il suo viaggio in Unione Sovietica, dall’altro, rifà il verso all’aforisma di Sciascia: «Se la memoria ha futuro». Il che significa scommettere sul futuro conservando il meglio di quel che siamo stati. Il campo su cui si concentra l’attenzione di Calabrò è ovviamente quello dell’impresa: elemento cardine del nostro migliore Novecento e tuttora declinata sotto le forme del digitale o del green, capace sì di maturare la più epica delle trasformazioni della storia umana (la fine della civiltà contadina, che Charles Péguy considerava il più grande evento dopo la morte di Cristo), ma anche di smarrire se stessa e le proprie potenzialità dentro una sorta di capitalismo disorientato e tentacolare, al servizio del mercato ma nella consapevolezza che il mercato non basta a colmare le tante vocazioni a cui sono chiamati gli imprenditori, a partire da quella di fondo: creare benessere, mettersi cioè al servizio della società e non soltanto delle speculazioni. Di fronte a quella che Calabrò chiama «tentazione della retrotopia», l’antico vezzo di credere in un passato migliore rispetto al tempo che ci attende, non è più sufficiente essere soltanto (o ragionare da) impresa. Altrettanto urgente è sapersi comunicare all’esterno tramite le contaminazioni con le istituzioni culturali: università, centri di ricerca, scrittori, filosofi, umanisti, che nei decenni passati hanno spesso svolto un ruolo accessorio e invece oggi sono chiamati a elaborare una forma di narrazione credibile. Il racconto di un’impresa è qualcosa che va oltre lo storytelling, riguarda il rapporto tra scienza e innovazione, ma non esclude le risorse della memoria perché ogni vera impresa è sempre costruzione di una società in cui l’esercizio di produrre oggetti viene scandito dalla metrica di un nuovo vocabolario e l’alleanza delle metropoli con i territori diventa il paradigma di un tempo dove ricostruire partendo da solide basi: lavoro, esperienza, capacità progettuale. Che sia questa la lingua con cui dovrebbero parlare i luoghi della nuova economia è un’ipotesi che si fa sempre più convincente anche alla luce di ciò che viene suggerito nel sottotitolo del libro: «Raccontare l’impresa per stimolare l’innovazione».

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