È morto Alessandro Leogrande, con le sue inchieste faceva letteratura
di Andrea Cortellessa
2' di lettura
Di Alessandro Leogrande – morto ieri, d'improvviso, all'età inaccettabile di quarant'anni, di ritorno dall'Argentina dove aveva condotto l'ennesima inchiesta – è difficile in questo momento da spegnere, nella memoria, il sorriso. Il sorriso, in chi fa il nostro mestiere, è spesso di circostanza; un'impalcatura retorica, una divisa d'ordinanza. In lui era invece il contrassegno autentico di una postura tanto più rara, in effetti, quanto più spesso simulata: quella dell'attenzione con cui ascoltava il prossimo.
Un'attenzione che era fra gli strumenti fondamentali del suo lavoro, un lavoro antico quanto indispensabile, ancorché oggi spesso banalizzato dall'improvvisazione con cui in tanti credono di poterlo svolgere: quello del giornalista d'inchiesta. L'inchiesta vera, come dice l'etimo, consiste infatti nel saper fare le domande giuste; non nell'avere già in tasca le risposte. E Alessandro, come mostrano gli innumerevoli pezzi sulle riviste e sui giornali cui collaborava, come pure i suoi libri, davvero sapeva fare le domande: perché sapeva ascoltare le risposte. A me era capitato di leggere un suo reportage dall'Albania in cui brillavano insieme, proprio, tanto la capacità di ascolto che quella, non meno acuta, di saper rielaborare intellettualmente le cose che gli erano state riferite. Gli avevo chiesto di poterle mettere, quelle pagine, in un libro; e lui ne era stato contento. Le avevamo corredate di una conversazione: stavolta spettava a lui rispondere, dunque; ma subito le parti si erano capovolte, e la sua intelligenza seppe subito come mettere in questione, per fortuna, quello che già pensavo di sapere di lui, e appunto del suo lavoro.
Negli ultimi anni Alessandro aveva saputo interpretare come pochi, fra i tanti che ci hanno provato, quel giro di vite che ha fatto, del giornalismo d'inchiesta, un genere anche letterario. Sono libri di uno scrittore vero libri come Il naufragio e La frontiera, in cui Alessandro è riuscito nel compito improbo di trovare le parole – parole da lui ascoltate, una volta di più – per dire, senza retorica ma anche senza sussiego, la tragedia per cui verrà ricordato il nostro tempo: quella di chi muore in mare – nel mare nostro, come si diceva una volta – per salvare la propria vita dalla guerra e dalla fame (e ricordo quanto tenesse, da scrittore appunto, all'adattamento teatrale del Naufragio, Katër I Radës, messo in musica dal compositore albanese Admir Shkurtaj). La forza della sua scrittura consisteva soprattutto, credo, nella concretezza da hic et nunc con cui, anche quando parlava di terre lontane e dei loro problemi, problemi dai nostri magari altrettanto lontani, faceva sentire la medesima passione umana, prima che civile, con cui aveva mosso i primi passi nella sua città, Taranto, attorno al rogo dell'Ilva e non solo. Fumo sulla città s'intitola il suo libro più mosso, concresciuto attorno a quella che è se non sbaglio la sua opera prima; e quello che resta, secondo me, il suo più bello. Traboccante di un'umanità mai atteggiata, mai esibita; e, proprio per questo, tanto più autentica. Come il sorriso che, malgrado tutto, restava sul viso di chi lo aveva scritto.
L'ultimo articolo scritto per noi da Alessandro Leogrande sarà pubblicato domenica prossima, 3 dicembre, sulla «Domenica» del Sole 24 Ore
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