È morto Enzo Mari, maestro del design italiano, aveva 88 anni
Proprio poco fa, il 17 ottobre, è stata inaugurata una mostra a lui dedicata alla Triennale di Milano. Si è spento a causa del Covid-19
di Fulvio Irace
4' di lettura
Per una involontaria ironia della sorte, Enzo Mari, scomparso oggi al San Raffaele di Milano a 88 anni, esce di scena due giorni dopo l'inaugurazione alla Triennale di Milano di una grande mostra riassuntiva del suo lavoro: messa in scena – gioiosa e pensosa al tempo stesso – che fungerà meglio di ogni altra commemorazione come una trionfale messa funebre in onore dell'ultimo maestro e insieme del grande fustigatore dell'intero sistema del design postmoderno.
La vita di un maestro del design italiano
Nato nel 1932 a Cerano (Novara), Mari (Ambrogino d'oro nel 2015) non è stato solo milanese d'adozione: della città industriale degli anni 60 aveva colto e assimilato l'anima più colta e nobile, quella degli artisti d'avanguardia e degli intellettuali che in quegli anni di fuoco e di speranze tennero alta la tensione verso una cultura integrata tra arte, architettura e pensiero.
Chi lo ha conosciuto personalmente, non può non ricordarne la figura ascetica e austera che ricordava già nella fisionomia, l'iconografia di un grande pioniere della storia del design mondiale, il fondatore dell'Arts and Crafts movement William Morris, che accese il motore della riconciliazione tra arte e industria nell'Inghilterra vittoriana. A poco più di 60 anni, avrebbe potuto già figurare in uno di quei film in costume dove la militanza politica era solo l'altra, indissolubile, faccia della medaglia della militanza intellettuale, in qualunque campo questa si esercitasse. Nello studio-archivio di piazzale Baracca riceveva critici e cronisti, tutti intimiditi dalla posa minacciosa e a volte anche collerica con cui rivendicava la sua alterità rispetto al nascente sistema del design e dell'ambigua nozione di “made in Italy”, al punto da far dire ad Alessandro Mendini (tra i pochi frequentatori ammessi alle parche occasioni conviviali casalinghe negli ultimi anni del declino fisico): «Mari non è un designer, se non ci fossero i suoi oggetti mi importerebbe poco. Mari invece è la coscienza di tutti noi, è la coscienza dei designer, questo importa».
Mari intimidiva, Mari incuteva rispetto, Mari suscitava in chi lo ascoltava un senso di inferiorità e al tempo stesso di speranza: quando il design era diventata la merce di scambio di un capitalismo ubriaco di immagine, ti comunicava il sentimento di un possibile riscatto da quella patina luccicante di consenso che aveva cominciato ad avvolgere il mondo degli oggetti, facendolo ruotare intorno al falso mito del designer unto dal successo.
Proprio lui che la storia del design stava scrivendo con la penna e con le mani, con la teoria e con la prassi, unico modo, secondo lui, di riscattare alla maniera di Marx, l'alienazione del lavoro. Quattro Compassi d'Oro (più uno alla carriera), presidente dell'Adi dal 1976 al 1979, organizzò mostre memorabili, scrisse libri fondamentali sulla qualità del lavoro, rivendicò sempre la centralità della “questione umana” nella definizione di una teoria dei bisogni che riteneva alla base di ogni possibile forma di progetto.
Chi visiterà la mostra in Triennale avrà modo di constatare la complessità (non priva di contraddizioni, ma proprio per questa più veritiera e anti-agiografica) della sua proposta che in fondo si poneva il problema di rimettere in riga il design, spostandolo dalla pretesa di rendere bello il mondo a quella di renderlo più giusto attraverso una forma di bellezza che non facesse torto al sapere dell'artigiano e ai bisogni (e desideri) del pubblico.
Nel tentativo di trasportare l'utopia socialista in quella della bellezza per tutti, Mari è stato infaticabile e inimitabile: arrivando persino a suggerire una riduzione del ruolo del designer con la proposta di un'“Autoprogettazione”, 19 modelli di sedie, tavoli, armadi, eccetera da realizzare autonomamente assemblando tavole grezze e pochi chiodi.
Poeta delle contraddizioni, Mari ha potuto così regalarci oggetti di rustica schiettezza come la Sedia P o la Pop Kid's Chair e raffinatissimi, politi oggetti da scrivania per Danese; vasi di plastica riciclata (Ecolo) e delicate anfore per la Royal Porcelain Manufactury Berlin.
Qualunque tipologia di mobile o di oggetto trovasse spazio nella sua mente accalorata, si elevava di scatto sullo stereotipo e sullo standardizzato, assumendo la grazia stupefatta di una cosa inventata non per artificio di forma, ma per coscienza della sua rarefatta funzione. Mari predicava il design come lotta di classe per superare quella che chiamava la cultura del karaoke, dello scimmiottamento per ripetizione: non cercava l'oggetto di tendenza, ma aspirava all'oggetto perfetto. Una volta, per spiegare a degli studenti quello che si aspettava da loro, ricordò la pratica dei maestri giapponesi che prima di dedicarsi all'arte del dipingere trascorrevano lunghi anni di silenzio in estenuanti esercizi, tracciando sempre lo stesso segno fino ad arrivare alla fluidità automatica della perfezione: solo quando la mano aveva assimilato l'essenza del soggetto da riprodurre, poteva aver luogo il mistero della creazione spontanea. Non tutti compresero, perché convinti dal falso mito della creazione come atto spontaneo e veloce e fu per lui motivo di rabbia e di delusione. Ma, per chi sia disposto ancora a credere nel suo insegnamento, rimane la convinzione che la perfezione nasce dalla rarefazione: niente a che vedere con la moda del minimalismo, però. Per Mari il “meno” poteva diventare il “più” solo quando l'idea si era fatta strada nella nebbia dell'apparenza per raggiungere la sua anima. Che ovviamente vola, come tutte le cose disegnate dalle sue ruvide mani.
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