È tempo che gli Usa mettano un freno ai prestiti predatori cinesi
I legami debitori tra Pechino e molti Paesi africani in via di sviluppo sono un elemento di instabilità che va affrontato prima che scadano le moratorie legate al Covid
di Paola Subacchi
5' di lettura
La pandemia pone i Paesi poveri altamente indebitati di fronte a un dilemma fatale. Come lamentava il primo ministro etiope Abiy Ahmed, premio Nobel per la pace, lo scorso aprile, i leader sono stati costretti a scegliere se «continuare a pagare il debito o reindirizzare le risorse per salvare vite e mezzi di sussistenza». E quando scelgono quest'ultima opzione, spesso è alla Cina – il più grande prestatore bilaterale dell'Africa – che devono rispondere.
Secondo Ahmed, una moratoria sul pagamento del debito era essenziale per consentire all'Etiopia di rispondere al Covid-19. Tale moratoria avrebbe fatto risparmiare all'Etiopia – uno dei Paesi più poveri del mondo – 1,7 miliardi di dollari tra aprile 2020 e la fine dell'anno e 3,5 miliardi di dollari se estesa fino alla fine del 2022. Una risposta efficace a Covid-19, osservava, sarebbe costata 3 miliardi di dollari.
Una moratoria sul debito ha in effetti salvato l'Angola, almeno per ora. Insieme al Ciad, alla Repubblica del Congo, alla Mauritania e al Sudan, l'Angola era sotto forte pressione finanziaria, a causa del crollo dei prezzi delle materie prime innescato dalla crisi Covid-19. Ma, a settembre, l'Angola si è assicurata un accordo con tre dei suoi principali creditori – tra cui la China Development Bank (la Cdb, a cui l'Angola deve 14,5 miliardi di dollari) e la Export-Import Bank of China (EximBank, cui doveva 5 miliardi di dollari) – per ricevere, nel corso dei prossimi tre anni, 6,2 miliardi di dollari in cancellazione del debito.
Allo stesso modo, in ottobre, lo Zambia non è riuscito a pagare 42,5 milioni di dollari di interessi su un'obbligazione denominata in dollari, ed era sull'orlo del default per il suo debito estero di 12 miliardi di dollari, l'equivalente di circa la metà del suo Pil. Ma gli stessi creditori cinesi hanno allentato la pressione: la Cdb ha differito interessi e rimborsi di capitale per sei mesi, fino ad aprile 2021, ed EximBank ha sospeso tutti i pagamenti sul suo portafoglio di 110 milioni di dollari di prestiti sovrani.
L'accordo con EximBank è stato concordato nell'ambito della Debt Service Suspension Initiative (DSSI) del G20, in base alla quale 73 dei Paesi più poveri del mondo possono richiedere una tregua temporanea dal rimborso bilaterale del debito. Finora, 46 Paesi – tra cui Angola e Zambia tra i 31 in Africa – hanno presentato richieste Dssi.Circa il 70% dei pagamenti interessati – per un valore di circa 8 miliardi di dollari – sono dovuti alla Cina, che detiene il 62% del debito ufficiale bilaterale dell'Africa. Ciò non dovrebbe sorprendere: dalla crisi finanziaria globale del 2008, la Cina ha costantemente incrementato i suoi prestiti diretti ai Paesi in via di sviluppo. Per i 50 Paesi più indebitati beneficiari di tali prestiti, lo stock medio di debito nei confronti della Cina è aumentato da meno dell'1% del Pil nel 2005 a oltre il 15% nel 2017.
Ciò comporta seri rischi. Per cominciare, i prestatori cinesi tendono a stabilire condizioni di prestito più onerose – tassi di interesse più alti, scadenze più brevi – rispetto alle banche multilaterali di sviluppo. Si riporta che, nell'aprile 2020, il presidente della Tanzania John Magufuli avrebbe minacciato di cancellare un progetto da 10 miliardi di dollari avviato dal suo predecessore, perché il finanziamento cinese era previsto con condizioni che «solo un ubriacone» avrebbe accettato.
Inoltre, la maggior parte dei prestiti bilaterali della Cina è effettuata dalle cosiddette “policy bank” e dalle banche commerciali statali, che possono essere controllate dallo stato cinese, ma operano come entità legalmente indipendenti, non come prestatori sovrani. Quindi, a differenza dei membri del Club di Parigi che riunisce i principali creditori sovrani, spesso costoro richiedono garanzie collaterali per prestiti di sviluppo. Il 60% circa dei loro prestiti totali ai Paesi in via di sviluppo è soggetto a garanzie collaterali. Quando un Paese richiede la cancellazione del debito, i suoi creditori cinesi possono rivendicare i diritti sulle attività detenute in garanzia.
Inoltre, a causa del loro status ambiguo – né pubblico né privato – le banche cinesi tendono a rinegoziare i prestiti sovrani bilateralmente e in segreto. Questo è valso per l'accordo dello Zambia con la Cdb, che la Cina considera un creditore commerciale. Rifiutando di ascoltare gli appelli della Banca Mondiale e del G20 affinché la Cdb partecipasse alla Dssi come prestatore bilaterale ufficiale, la Cina ha insistito sul fatto che la sospensione dei pagamenti dei servizi di debito è avvenuta “su base volontaria e secondo i principi di mercato”.
A dire il vero, la Cina non è l'unica responsabile di questa situazione. Sono stati i mancati finanziamenti adeguati da parte di altri istituti di credito – in particolare in investimenti infrastrutturali – a spingere così tanti Paesi a basso reddito nelle braccia dei creditori cinesi.
I Paesi africani spesso non possono permettersi di costruire le infrastrutture di cui hanno disperatamente bisogno per sostenere le loro popolazioni in crescita. Inoltre, non hanno accesso ai mercati dei capitali e alle banche internazionali. E gli istituti di credito sovrani non hanno fatto nulla in proposito: nel 2017 il Club di Parigi rappresentava solo il 5% del debito pubblico e pubblicamente garantito dell'Africa subsahariana.
I prestatori cinesi, d'altra parte, sono stati disposti a concedere prestiti ai Paesi africani poveri senza chiedere molto in termini di riforme di governance e misure anti-corruzione. Ciò ha comportato progetti vincolati da condizioni di prestito draconiane, costosi da gestire, e che difficilmente produrranno rendimenti soddisfacenti.
Le moratorie del debito durante la crisi Covid-19 possono offrire ai Paesi poveri una tregua temporanea, liberando fondi per la risposta alla pandemia. Ma non risolveranno i problemi del debito di questi Paesi. Al contrario, la fine delle moratorie potrebbe innescare un'ondata di fallimenti simultanei, richiedendo l'intervento del Fondo Monetario Internazionale e di altre istituzioni multilaterali.
Affrontare questi rischi del debito in modo sostenibile richiede un nuovo quadro internazionale. Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden dovrebbe farsi promotore della realizzazione di un inquadramento in grado di gestire le conseguenze dei prestiti predatori cinesi. Dopotutto, obbligare la Cina a rendere conto delle proprie pratiche commerciali sleali è uno dei pochi ambiti in cui esiste un ampio accordo bipartisan negli Stati Uniti, e le azioni della Cina nel settore finanziario sono ancora meno trasparenti – e potenzialmente più distruttive.
Professore di Economia Internazionale presso il Queen Mary Global Policy Institute dell'Università di Londra, è l'autrice, più recentemente, di The Cost of Free Money (Yale University Press, 2020).
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