Ecco come l’inflazione cambia la spesa degli italiani: più discount e cibi in offerta
Dati Iri Gs1 Italy nei primi 9 mesi 2022: a ricerca di convenienza ha penalizzato l'ecommerce rallentandone l'avanzata: i tassi di crescita a tre cifre del giro d'affari del 2020 e quelli a due cifre del 2021 sono lontani
di Manuela Soressi
3' di lettura
Toglieteci tutto, ma non il nostro (buon) cibo quotidiano. Così si è detto, per decenni, degli italiani. Ma la crisi globale che sta caratterizzando il 2022 ha inciso anche su quest'approccio. Di fronte ai tanti rincari, presenti o annunciati, le famiglie cercano sempre più di risparmiare. Anche nel food. Tanto che da settembre emergono i primi segnali di trading down del carrello della spesa, con l'abbandono dei prodotti premium a favore di quelli di primo prezzo.
A rivelarlo è l'indagine realizzata da Iri e GS1 Italy, che ha monitorato l'andamento del largo consumo nei primi nove mesi del 2022. Rispetto al gennaio-settembre 2021, a fronte di prezzi aumentati del 5,8% e di un'inflazione salita del 5,7%, le vendite a volume sono rimaste stabili (+0,1%) mostrando la capacità degli italiani di “incassare” il carovita. Ma dopo il rientro dalle ferie, la situazione è cambiata e le famiglie hanno tirato la cinghia, riducendo gli acquisti: nel giro di quattro settimane i volumi nella distribuzione moderna sono diminuiti, con punte del -4,7% negli ipermercati e del –1,6% nei superstore. A guadagnarci è stato il discount, dove le quantità di merce vendute sono aumentate, in particolare da settembre (+6,3%). «Gli italiani stanno dimostrando una grande capacità di affrontare le emergenze modificando il mix dei canali, dei prodotti acquistati e l'adesione alle promozioni» spiega Ilaria Archientini, Ecr project manager di GS1 Italy.
Per riuscire a far quadrare i conti di casa il 23% degli intervistati ha dichiarato di frequentare i discount più spesso che nel recente passato. L'escalation di questo canale continua: il giro d'affari è aumentato del 12,2% in un anno (così come accade da un biennio) e la quota a valore sul totale è arrivata al 20,6%, guadagnando tre punti rispetto al 2019. Ma gli effetti della congiuntura economica si sono fatti sentire anche su questo format: il discount è il canale distributivo dove l'inflazione si è fatta più sentire (8,6%), soprattutto da settembre (14,1%), e dove la pressione promozionale è calata maggiormente (-3,0% contro il -2,2% medio). Ma anche quello dov'è cresciuta di più la presenza di grandi marche industriali (tornate a fare innovazione), così com'è accaduto in un altro canale che sta beneficiando di questa caccia alla convenienza, ossia quello degli specialisti del drug, casa e persona (+4,4%).
La ricerca di convenienza ha penalizzato l'ecommerce rallentandone l’avanzata. I tassi di crescita a tre cifre del giro d'affari registrati nel 2020 e quelli a due cifre del 2021 sono lontani. Nell'anno finito a settembre i generalisti online hanno incassato un +4,1%, l'home delivery un +4,7% e il click&collect un +0,5%. Così la quota dell'e-commerce sul giro d'affari del largo consumo resta ferma al 2,3% di quota, come nel 2021.
Non solo è cambiato il dove si va a fare la spesa, ma anche il come. E il carrello non è diventato solo più vuoto che in passato, ma anche più «basic». L'analisi per fascia di prezzo o di posizionamento a scaffale mostra l'avanzata dei primi prezzi (+7,6% sull'anno mobile) e dei prodotti mainstream (+6,7%) e la contrazione di quelli premium (-1,7%), in particolare di grandi marche. Le private label guadagnano quasi l'1% di quota, anche grazie all'aumento dell'offerta a scaffale, tranne che nei discount e negli specialisti drug.
Sulle variazioni del carrello della spesa pesa anche l'impatto dell'inflazione, molto evidente soprattutto in alcune filiere sotto pressione. Il record va all'olio di semi (+49,4%), alla pasta di semola (+23,5%) e al burro (+20,8%), seguiti da avicunicoli, formaggi da tavola, riso bianco, maionese, nettari, carta igienica, tovaglioli, fazzoletti e asciugamani di carta con un tasso inflattivo superiore al 10%.
Su altri prodotti i rincari si sono fatti sentire di meno, com'è accaduto all'acqua gassata. In questo caso, semmai, il problema è stato quello di trovare il prodotto nei negozi, come ha rivelato l'ultimo Barometro Osa. «I produttori di acqua frizzante hanno dovuto fare i conti con la scarsa reperibilità di anidride carbonica che ha fatto schizzare al 27% i tassi di out of stock - spiega Emanuela La Rocca di Iri - Un fenomeno che ha interessato anche le bevande gassate, per cui l'out of stock è stato del 6%». Non è solo un problema di Co2 visto che il tasso di out of stock è tornato a salire in tutti i reparti e canali (3,8%) così come le vendite perse a causa degli scaffali vuoti (5,2%). Un'inefficienza che si è fatta sentire soprattutto nel cura persona (+0,7% le vendite perse) anche se il reparto più colpito resta l'ortofrutta, con il 7,9% di mancato incasso a causa dell'assenza di prodotto a scaffale.
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