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“Tuitate” è un paravento ad un solo pannello mentre “Byobu” è a più pannelli, questi i nomi giapponesi di cui il più famoso è quello di Soga Jasoku, del 400.
In Europa appaiono ai primi del Medioevo, erano in tutte le materie, anche in vimini; si usavano per dividere i letti dei personaggi al seguito dei nobili quando, in viaggio, venivano alloggiati in un’unica sala.
Para-vento perché nelle chiese servivano a riparare dalle correnti d’aria gli officianti.
Ma i miei, perché?
Come potevo dire i miei racconti rendendo anche utile l’oggetto su cui li raccontavo?
Il primo lo feci per Fabrizio Clerici, quando ancora “architetto” arredava le case, quando la nobile “pigrizia” gli fece abbandonare il tecnigrafo per il pennello.
Di uno ho fatto una stanza: è lungo 16 metri e, ripiegato a 4 per 4, forma le pareti della stanza metafisica pensata come luogo di meditazione.
Altri li ho fatti piccoli, 130 per 140 cm., per nascondere le tavole quando si imbandiscono o si sparecchiano; montati su ruote, si ripiegano facilmente.
Ne ho fatti a motivi senza fine, ma perlopiù essi sono un modo per permettermi di raccontare certi miei sogni.
Una città con montagne e villaggi, tutta di carte da gioco, coi personaggi che se ne vanno a spasso e che ci rimirano dalle finestre; un cielo notturno col suo prezioso blu, raffina l’immaginazione in modo che il sogno rimanga oggetto, sia un mobile.
Come parlare ancora dei miei figli prediletti?
Thomas Schippers ne mise uno dietro il suo letto, appunto la “Città di Carte”, e mi piaceva pensare lo vedesse ogni sera dopo i concerti.
Neruda, per prese due per la casa di Francia che si costruì coi soldi del Nobel, non abitò in quella casa, lo ricordo quando mi definì: il Mago della Magia, “preciosa y precisa”.
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