economia e mercati

Ecco perché il 2017 non sarà l’anno del gran ritorno dell’inflazione

di Andrea Franceschi

(REUTERS)

3' di lettura

La disoccupazione negli Stati Uniti è ai minimi da 17 anni. In un contesto positivo per il mercato del lavoro ci si aspetterebbe una crescita dei salari perché le aziende, quando le cose vanno bene, sono disposte a spendere di più per attrarre i lavoratori più qualificati. Il fenomeno tuttavia non si sta verificando a giudicare dalle deboli statistiche sui salari. Questa è una delle ragioni per cui l'inflazione negli Stati Uniti ha recentemente registrato una battuta d'arresto. Venerdì il dipartimento del lavoro Usa ha registrato a giugno una crescita dell’1,6 per cento. Ben al di sotto del 2%, livello considerato ottimale dalla Federal Reserve

LA DINAMICA DELL'INFLAZIONE

Andamento dei prezzi al consumo, il confronto tra Eurozona e Stati Uniti (Fonte: S&P Market Intelligence)

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La debole crescita dei prezzi, una delle variabili chiave nel determinare le scelte di politica monetaria, non ha finora impedito alla banca centrale americana di alzare i tassi. La tabella di marcia, che prevede l'aumento del costo del denaro e la graduale riduzione del bilancio, non cambia come ha confermato nei giorni scorsi Janet Yellen nel corso della sua testimonianza al Congresso.

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Il numero uno della Fed, che finora non si è mai mostrata troppo preoccupata dai segnali in arrivo dall'inflazione, ha tuttavia cambiato registro sul tema ammettendo che c'è «incertezza sul quando e in che misura i prezzi riprenderanno quota». Le sue parole sono state interpretate dagli investitori come un segnale che la Fed agirà con prudenza nel mettere in atto la “normalizzazione” della sua politica economica.

IL MERCATO DEL LAVORO

Tasso di disoccupazione, il confronto tra Eurozona e Stati Uniti (Fonte: S&P Market Intelligence)

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Questa speculazione ha avuto importanti ripercussioni sui mercati. I rendimenti del mercato obbligazionario, che nella prima parte di luglio erano risaliti sulla speculazione di segnali in senso restrittivo da parte della Bce, sono tornati a scendere sulla scia dei Treasury americani.

Il tema dell’inflazione è centrale nel dibattito sulle scelte delle banche centrali. Dopo una lunga fase di politiche non convenzionali e ultraespansive queste ultime stanno iniziando a considerare una marcia indietro. La Fed, che da sempre detta la linea, è stata la prima a muoversi. Prima interrompendo il piano di acquisti di titoli sui mercati (Quantitative easing). Poi alzando il costo del denaro.

Se tuttavia la strada della “normalizzazione” pareva segnata fino a pochi mesi fa il quadro oggi è assai meno definito. Soprattutto per le incognite legate all’andamento dei prezzi. Chi fino a qualche mese dava per scontato che, anche per l’effetto delle manovre di stimolo fiscale della nuova amministrazione Usa, l’economia americana (e a ruota quella mondiale) sarebbe entrata in una fase di «reflazione» oggi deve rivedere le sue convinzioni.

Per varie ragioni. In primo luogo perché la cosiddetta «Trumponomics» (la ricetta di politica economica della nuova amministrazione fatta di stimoli fiscali e investimenti in infrastrutture) sta tardando a materializzarsi. Poi perché la spinta inflazionistica legata al rialzo delle materie prime si è esaurità dopo che il petrolio ha smesso di crescere. Ma l’aspetto che forse preoccupa di più i banchieri centrali è soprattutto il fatto che a mancare all’appello sia la cosiddetta «inflazione buona». Quella crescita dei salari che in genere si concretizza quando l’economia è in buona salute e che è l’elemento portante per rendere sostenuta la crescita dei prezzi.

Perché non crescono i salari? A detta di molti il sempre più ampio impiego della tecnologia da parte delle aziende ha una buona fetta delle responsabilità. La rivoluzione tecnologica ha reso obsolete tante professioni un tempo diffuse e ben pagate. Il mercato del lavoro, come ha segnalato di recente anche un’indagine dell’Istat, si è polarizzato. Ad essere richieste sono poche figure altamente specializzate oppure tanti lavoratori con un grado di specializzazione minimo ma che si accontentano di salari bassi. Tutta la fascia intermedia è stata o rischia di essere tagliata fuori. Le imprese, dove possono, sostituiscono le macchine agli impiegati e, per la legge della domanda e dell’offerta, questi ultimi non hanno il potere contrattuale per strappare aumenti di stipendio.

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