Interventi

Ecco perché la legge di bilancio è il più manipolato dei testi sacri

Un capo di gabinetto di lungo corso svela come prende forma la Finanziaria

di Anonimo

(Ansa)

4' di lettura

Potremmo fare a meno di tutte le oltre duecentomila leggi italiane. Tranne di una.

La legge finanziaria è l’unica che il Parlamento approva necessariamente entro la mezzanotte del 31 dicembre di ogni anno, perché serve a dare attuazione all’articolo 81 della Costituzione. È il pieno di benzina nella macchina dello Stato.

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Ogni tanto i politici in crisi di coscienza le cambiano nome per imbellettarla agli occhi dell’opinione pubblica. In principio, alla fine degli anni settanta, era la legge finanziaria. Poi legge di stabilità. Ora legge di bilancio. Ma la sostanza, per noi, resta immutata. Tanti numerini sparsi in centinaia di pagine di tabelline infarcite di migliaia di emendamenti per risolvere (o creare) altrettanti problemi.

È la legge delle leggi. E dato che è l’unica che il Parlamento sicuramente approverà, tutto ciò che ci finisce dentro sarà magicamente marchiato con il timbro indelebile della legge. Tasse, spese, finanziamenti, tagli, agevolazioni, obblighi, diritti, divieti e proroghe. I progressi più nobili e le schifezze più abiette. Tutto insieme, affogato ed equiparato.

La finanziaria è un rito lungo, tantrico, che si snoda in tre mesi di passione. I mesi più faticosi del mio anno da capo di gabinetto. Ancora di più ora che non ho più l’età gagliarda delle prime esperienze ministeriali, quando le notti insonni mi ricaricavano di adrenalina. Per arrivare fino in fondo bisogna aver letto i testi sacri e bilanciare passioni e interessi. Che non sono né buoni né cattivi. E quindi non vanno respinti, poiché significherebbe respingerli a un livello più profondo. E quindi sublimarli.

Il nostro compito è salire su quello che Giuliano Amato definì «l’ultimo treno per Yuma». Portare a bordo gli articoli funzionali ai compiti del ministero. Poi quelli che sorreggono la carriera del ministro. Infine, se possibile, quelli caldeggiati da qualche gruppo di pressione a cui siamo personalmente legati o semplicemente interessati a coltivare. Un’associazione ambientalista, una multinazionale del tabacco, una start up, un’azienda parastatale.

Non importa chi e perché.

È un compito ingrato, ma qualcuno deve pur farlo. Ogni ministro deve intestarsi qualcosa. Gli incentivi all’auto elettrica, la lotta alle bibite gassate, un festival jazz, una cattedrale da restaurare. Il capo di gabinetto deve fare in modo che quella norma, all’alba di Capodanno, sia stampata sulla Gazzetta Ufficiale. E quindi regolarmente in vigore.

Ne va della sorte del ministro, e anche della mia. Se il ministro ne uscirà vincitore, anche le mie quotazioni come buon capo di gabinetto saliranno.

Se tra ottobre e dicembre non sei disposto a trasfigurarti in un guerriero e a salire sul ring della finanziaria, il mestiere di capo di gabinetto non fa per te. Se non sei pronto a combattere la lotta più spietata a colpi di commi, emendamenti, articoli, riformulazioni, ordini del giorno e codicilli, sarai spazzato via e rispedito a scrivere sentenze, manuali universitari, pareri di legittimità.

[…] I tre mesi della finanziaria sono infernali. Roma viene invasa da lobbisti di ogni sorta, in rappresentanza di ogni tipo di interessi. Pubblici e privati. Affaristici e no profit. Collettivi e individuali. Un avvocato d’affari mi ha raccontato che ormai i suoi clienti non gli chiedono più di avvicinare ministri e presidenti di commissione, ma direttamente i capi di gabinetto. Prestigiose agenzie internazionali e intermediari “all’amatriciana” si confondono in un caleidoscopio di appuntamenti, promesse, lusinghe e minacce, alimentando un mercato che vale 40 milioni (più gli extra in nero) e cresce del 15% l’anno. Tanto che alcuni di noi, quando escono dal giro dei ministeri, provano a passare dall’altro lato della barricata. Come Luigi Tivelli, un ex funzionario parlamentare che ha aperto uno studio di consulenza vantandosi di essere «il Coppi del lobbying».

Per tenerne conto, mentre il Parlamento discute, analizza, audisce, si accapiglia sui decimali, ogni giorno da qualche parte viene sfornata una nuova bozza. Nella quale sparisce la soppressione di una Camera di commercio. E spunta un bicentenario da sovvenzionare. Si elimina un’esenzione fiscale. E si aggiunge una superstrada da finanziare.

Inutile inseguire le bozze mutevoli. Bisogna capire da dove escono. Chi le scrive.

Molti girano a vuoto, si illudono. Io cerco di non farmi distrarre. La cosa più importante è sapere qual è il computer buono. Il computer giusto. C’è, in tutta Roma, un solo computer che può cambiarti la vita, la carriera o almeno la legislatura. Perché contiene il file della legge finanziaria. Da lì escono le bozze.

Il file vero. Quello in cui si scrivono i testi che poi andranno in Parlamento e saranno approvati.

[…] È finita. Quasi. Anche il maxiemendamento va scritto, in un computer. Il computer buono, sempre quello. In via XX Settembre, nella stanza del capo di gabinetto del ministero dell’Economia o del suo vice. E io dovrò vigilare che non mi facciano scherzi.

«Il maxiemendamento è il delitto perfetto», ha scritto il costituzionalista Michele Ainis. Senza castigo, aggiungo io.

Mi faccio mandare “il maxi”.

Sono stremato. Ma devo resistere, sono all’ultimo miglio. Lo viviseziono. Elefantiaco, contorto, oscuro. Un articolo, 842 commi di italica oscurità.

Il maxiemendamento non si deposita mai in Parlamento in formato elettronico, ma rigorosamente cartaceo. Come ai vecchi tempi. La ragione non è il rifiuto luddistico della tecnologia informatica, ma una più pratica esigenza. Il regolamento prevede che trascorrano almeno ventiquattro ore dal momento in cui il maxiemendamento viene depositato dal governo a quello del voto in Aula. Un giorno può essere eterno, possono maturare circostanze che esigono correzioni volanti al testo. Per esempio, se si scopre che mancano alcuni voti e bisogna recuperarli con una marchetta di gradimento dei parlamentari riottosi. Allora bisogna aggiungere, correggere, limitare, estendere, eliminare in extremis una parola, un rimando normativo, una cifra.

Se il testo è depositato in formato elettronico, per email o su una chiavetta Usb, la correzione è impossibile: lascerebbe una traccia indelebile e non sarebbe possibile intervenire su tutte le copie del file. Invece se l’originale è stampato, anche a fronte di un maxiemendamento di migliaia di pagine, è sufficiente toglierne una e sostituirla con un’altra stampata clandestinamente con la correzione necessaria.

Tutti sanno che è andata così. Che il testo sacro è stato manipolato. Ma nessuno potrà mai dimostrarlo.

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