Economia di guerra, leadership deboli e cartelli da sostenere
Chi ha a cuore l’Europa dovrebbe preoccuparsi. Perché il ritardo con cui a Bruxelles iniziano a occuparsi seriamente della crisi energetica, almeno nella sua dimensione estrema determinatasi a seguito della guerra di invasione russa in Ukraina, indica che in Europa c’è un problema.
di Giovanni Tria
7' di lettura
Chi ha a cuore l’Europa dovrebbe preoccuparsi. Perché il ritardo con cui a Bruxelles iniziano a occuparsi seriamente della crisi energetica, almeno nella sua dimensione estrema determinatasi a seguito della guerra di invasione russa in Ukraina, indica che in Europa c’è un problema. Probabilmente c’è un problema di leadership, con una Commissione che sembra inseguire gli eventi. Solo ora, sono le notizie di oggi, forse qualcuno inizia a capire che quando si dichiara una guerra, anche se solo una guerra economica, si deve essere preparati a condurla o ci si deve preparare rapidamente a esserlo. Perché non è sufficiente farsi riprendere in visite a Kiev o vicino alle zone di guerra per dare sostanza all’idea di un’Europa unita nello sforzo bellico. Condurre una guerra economica contro la Russia, quella militare essendo delegata agli ucraini, implica essere pronti a una economia di guerra, il che significa essere pronti a intervenire sul funzionamento di mercati organizzati per periodi di pace. Da Bruxelles sono venuti annunci sui tempi entro i quali dovremmo smettere di finanziare la Russia acquistando gas e petrolio, ma non è stata ancora data risposta a chi avvertiva, come il governo italiano, che dovevamo prepararci a evitare, o a contenere, il risultato paradossale di acquistare meno gas o petrolio dalla Russia ma a prezzi più elevati, e quindi con esborso maggiore per meno prodotti. Oltretutto i tempi di riduzione dell’approvvigionamento ora sembrano più dettati dal venditore russo che dai compratori europei.
Ma c’è un problema politico dietro il dibattito tecnico sulla necessità di un tetto al prezzo del gas, di procedere al “decoupling” tra la determinazione del prezzo del gas e quello dell’elettricità e di attuare altri possibili interventi diretti a frenare l’aumento del prezzo del gas. Il problema politico è dato dal fatto che gli interessi non sono uguali tra i Paesi che in questa guerra stanno o dovrebbero stare dalla stessa parte. Gli interessi non sono uguali a causa delle differenti configurazioni delle economie e degli approvvigionamenti energetici; quindi, per raggiungere un accordo operativo è necessario tener conto dei problemi di tutti. Tuttavia, non si dovrebbe consentire che si creino spazi per arricchimenti particolari, anche se non illegali, fatto tipico delle economie di guerra. È difficile, infatti, far accettare alle popolazioni dei Paesi europei chiamate a sacrifici che l’aumento dei prezzi dei prodotti energetici possa produrre enormi guadagni, come documentato anche ieri su questo giornale da Davide Tabarelli, a paesi come Norvegia e Stati Uniti che vendono in Europa il loro gas, pur essendo paesi Nato impegnati come gli altri a combattere sullo stesso fronte.
L’impennata dei prezzi che sta mettendo in ginocchio parte crescente delle attività produttive, oltre che le famiglie, dipende in parte dal malfunzionamento del mercato delle fonti energetiche, ma sostanzialmente dipende dall’eccesso di domanda rispetto all’offerta. Questo è il motivo per cui nelle economie di guerra si estende l’area dei prezzi amministrati, laddove i beni divengono scarsi e il prezzo in aumento non svolge più il ruolo fisiologico di segnale per far sì che ci siano investimenti per ridurre la scarsità. Il price cap significa, essenzialmente, stabilire che oggi i prezzi del gas non stanno svolgendo questo ruolo e quindi è necessario un provvedimento amministrativo. La possibilità di amministrare i prezzi senza produrre più scarsità dipende dalla capacità di creare un “cartello” sostenibile da parte dei compratori e, quindi, evitare la competizione da parte dei compratori in corsa per accaparrarsi il bene scarso. Questa è la ragione per la quale è poco sostenibile la richiesta di provvedimenti nazionali per stabilire un tetto al prezzo di beni energetici con un mercato internazionale. Un “cartello” deve infatti essere in grado di assicurare un potere monopolistico da parte della domanda in grado di imporre il prezzo, mantenendo la convenienza dei produttori a non ridurre l’offerta al di sotto di quella richiesta. Naturalmente vi sono aspetti tecnici complessi, ma la sostanza è questa. Ecco perché è inaccettabile che non si proceda rapidamente ad un accordo in sede europea per costituire il “cartello” di domanda a fronte del quasi-monopolista, almeno nel breve periodo, russo. La base dell’accordo per la costituzione del “cartello” non può essere solo la convenienza economica a aderirvi, ma dovrebbe essere la comune decisione di condurre una guerra economica e quindi di condividerne i costi. Si pone, forse, anche il problema del ruolo che stanno svolgendo gli Stati Uniti, il cui interesse a mantenere unita l’alleanza dovrebbe essere maggiormente sostanziato non solo dalle promesse di aumentare le forniture di gas liquido ma di farlo a prezzi accettabili. Come a dire che il perimetro del “cartello” dei sostenitori del price cap, almeno in corso di guerra, dovrebbe andare oltre l’Unione europea. Siamo consapevoli che si tratta di un mercato privato, ma siamo in guerra e le regole di mercato sono state ben violate fino ad oggi perché è proprio questo che accade nelle guerre. Chiedere al governo in carica di far fronte all’emergenza agendo a livello nazionale, e aumentando il debito pubblico, è la strada opposta, e sarebbe una strategia di debolezza.
Il parlamento sembra aver raggiunto un accordo di massima sulla legge delega per la riforma fiscale. Il punto più condiviso è quello che riguarda la necessità di ridurre la pressione fiscale diretta, cioè l’Irpef, sulle classi di reddito medio basse. Ma per ciò che riguarda la dimensione possibile di questa riduzione, un tema che sembra dimenticato nel dibattito è quello del possibile spostamento del prelievo dalle imposte dirette (Irpef) alle imposte indirette (Iva), cioè dai redditi dei fattori produttivi, che nel caso dell’Irpef sono sostanzialmente i redditi da lavoro, oltre che da pensioni, alla tassazione dei consumi. Il ministro Tremonti definiva questo spostamento “dalle persone alle cose”. Una dimenticanza che è molto strana perché, in un periodo di europeismo condiviso, si elude proprio una raccomandazione tradizionale della Commissione europea. Una raccomandazione il cui fondamento sta nel fatto che questo spostamento del prelievo favorisce la crescita a parità di pressione fiscale complessiva. La ragione è che si ridurrebbe il cuneo fiscale, che entra nei costi di produzione, determinando un aumento delle remunerazioni al netto delle tasse. Ma questo spostamento di prelievo sarebbe anche utile alla crescita perché determina una “svalutazione fiscale”, poiché l’Iva non grava sulle esportazioni, mentre colpisce i consumi di beni e servizi importati in egual misura rispetto a quelli prodotti sul territorio nazionale. In tal modo si recupera competitività internazionale. Non è un caso, inoltre, che nell’economia globalizzata, per tassare localmente i profitti delle multinazionali, si stia valutando di prendere come riferimento le loro vendite nei vari Paesi. E anche nelle discussioni sulla tassazione delle ricchezze si mette in rilievo che quelle personali, in vario modo legalmente o non legalmente occultate, si riflettono nel livello di vita dei beneficiari
al momento del consumo.
Il fatto rilevante è che seguire questa strada permetterebbe oggi una riduzione del prelievo Irpef sui redditi medio-bassi doppio o anche triplo rispetto a quello di cui si discute e ciò faciliterebbe la definizione del “metodo” con il quale ridurre in misura percepibile l’imposizione diretta sulle classi di reddito medio e medio-basso. C’è da decidere, infatti, “come” operare la correzione e le sue dimensioni. In altri termini, vi è da una parte il problema di come finanziare la riduzione del prelievo Irpef e dall’altra il problema di definire la struttura del prelievo, il grado di progressività e come applicarla. Su questo secondo punto, il dibattito politico si è concentrato su due possibili alternative ben descritte, come hanno ricordato Paladini e Visco sul Sole del 30 giugno, nell’ottimo rapporto presentato in una audizione al Parlamento dal direttore generale del Dipartimento delle Finanze del Mef, la professoressa Fabrizia La Pecorella, e ben studiate nello stesso Dipartimento fin dal 2019. La prima alternativa consiste essenzialmente nella riduzione, da 5 a 3, del numero di aliquote applicate per scaglioni di reddito. La seconda ipotesi è quella di passare al cosiddetto modello tedesco, cioè disegnare una curva continua di aliquote marginali, che coinciderebbero sostanzialmente con quelle medie effettive, da applicare per ogni singolo livello di reddito. Avendo già preso posizione su questa rubrica a favore di questa seconda alternativa (15 agosto 2020), ne richiamo i motivi fondamentali. Le maggiori attrattive del modello tedesco risiedono nella sua trasparenza e nella sua flessibilità. Trasparenza perché ogni percettore di reddito saprebbe, senza fare calcoli personali, quale percentuale del suo reddito deve versare allo Stato, che è ben diversa da quella che si legge nella sua aliquota marginale. L’argomento di chi parla di complicazione “algoritmica” o matematica per la determinazione della curva delle aliquote è fuorviante perché il compito del calcolo è dell’amministrazione fiscale, e non è complicato perché basta decidere quale debba essere, mentre al contribuente verrebbe solo comunicata la percentuale effettiva del suo reddito che deve pagare. Quanto alla flessibilità, va considerata da un duplice punto di vista. Permette di decidere in modo mirato i livelli di reddito da beneficiare oggi con una riduzione di prelievo, disegnando con precisione la curva della progressività, ma permette anche con facilità di appiattire progressivamente, in futuro, la curva delle aliquote fino al livello desiderato di reddito. In altri termini, sarebbe facile spostare verso livelli superiori di reddito la progressività del prelievo dettato dalla Costituzione, man mano che l’equilibrio della finanza pubblica lo permetterà e secondo le scelte politiche discrezionali che sono alla base della democrazia. In ogni caso, deciso il metodo, l’importante è ridurre progressivamente in misura significativa la pressione fiscale sui redditi medi e medio-bassi. Lo si dice da decenni, almeno da quando l’inflazione alta fece lievitare i redditi nominali, ma non quelli reali, con la conseguenza che le aliquote concepite per redditi medio-alti finirono per colpire anche i medio-bassi. Il dibattito sul fiscal drag, come venne chiamato il fenomeno, fu intenso ma senza effetti rilevanti. La fame di gettito fiscale a fronte di spesa pubblica crescente, purtroppo non per investimenti, ha fino a oggi sempre collocato questa esigenza di correzione del prelievo nella cartella dei buoni propositi.
loading...