Economia russa appesa al filo della Cina
A un anno dall'invasione dell'Ucraina, gli effetti del conflitto cominciano a pesare sull'economia russa
di Marcello Minenna
3' di lettura
A un anno dall'invasione dell'Ucraina, gli effetti del conflitto cominciano a pesare sull'economia russa. Dopo il rimbalzo post Covid, dal 2° trimestre 2022 il Pil ha iniziato ad arretrare. Per l'intero anno l'Istituto di statistica russo ha rilasciato una stima preliminare di -2,1%. Più severa è la stima dell'Ocse (-3,6%) che peraltro prevede una contrazione più intensa (-5,6%) per il 2023. Diversi indicatori confermano il recente deterioramento del clima economico come il calo delle vendite al dettaglio e dell'output industriale, con la produzione di veicoli che il mese scorso è crollata del 77,6% su base annua.
Le difficoltà sono evidenti anche sui conti pubblici e sui conti con l'estero. Nel 2022 il deficit pubblico è stato di circa 45 miliardi di $ (il secondo dato peggiore dell'ultimo decennio) e a gennaio 2023 ha raggiunto i 24 miliardi di $. Pesano il progressivo assottigliamento delle entrate fiscali da gas e petrolio e il boom della spesa (+75% nel 2022) necessario a finanziare la difesa. Intanto, dopo 4 trimestri di crescita consecutiva, nel 3° trimestre 2022 il surplus delle partite correnti è sceso di 30 miliardi di $ rispetto al trimestre precedente. Le restrizioni all'export di commodities energetiche verso l'Occidente, Ue in primis, hanno un ruolo chiave in queste dinamiche. Nei primi mesi del conflitto Mosca ha beneficiato dell'effetto sorpresa per continuare a vendere massicci quantitativi di petrolio e gas naturale ai Paesi europei a prezzi record. Col passare del tempo l'Europa ha però abbattuto la dipendenza dagli idrocarburi russi. In termini di volumi importati, tra febbraio e novembre 2022, il peso della Russia sugli acquisti Ue di combustibili fossili da partner extra unionali è sceso dal 30% al 13%. Il calo dei volumi, specie nella seconda metà dell'anno, si è riverberato anche sul valore monetario delle importazioni, controbilanciando la tendenza opposta derivante dall'aumento dei prezzi che peraltro, nel frattempo, hanno iniziato a sgonfiarsi. Per scudarsi dal ricatto russo sul gas naturale, i Paesi Europei hanno riempito gli stoccaggi prima dell'arrivo della stagione fredda ricalibrando in parallelo il mix geografico dei loro fornitori. Complice il clima particolarmente mite dei mesi invernali, questa strategia si è rivelata vincente e ha permesso una rapida discesa dei prezzi. Altrettanto decisa è stata l'emancipazione dal petrolio russo (Ural oil) culminata nell'embargo Ue sulle importazioni via mare di greggio e, da questo mese, anche di prodotti petroliferi. Per via di questa sanzione (e del price cap di 60 $/bbl imposto dai Paesi del G7), ora l'Ural costa circa 30 $/bbl in meno rispetto al Brent e, quasi certamente, per fare cassa la Russia dovrà fare molto più debito e attingere al tesoretto del proprio fondo sovrano, già sceso di 26 miliardi di $ dall'inizio della guerra. Una risorsa preziosa per Mosca è senza dubbio la rapida intensificazione degli scambi con paesi “amici” come Turchia e Cina. Nel 2022 l'export verso la Turchia è salito del 103% e l'import del 60% mentre il commercio bilaterale sino-russo ha raggiunto i 190 miliardi di $ (+34% sul 2021). Ma rispetto ai numeri complessivi del commercio tra la Cina e il resto del mondo, il peso della Russia resta esiguo e pone Pechino in una posizione di netto vantaggio negoziale. La schiera di coloro che si chiedono se per l'economia russa la vera eredità della guerra sarà quella di diventare un satellite del colosso cinese si va rapidamente ingrossando.
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