arte

Edward Hopper, echi di poesia sulla tela

L’artista in mostra alla Fondatio Beyeler è stato fonte di ispirazione per poeti e letterati

di Alberto Fraccacreta

(Picture-Alliance/AFP)

3' di lettura

Donne pensierose alla finestra in attesa di una rivelazione, ferrovie al tramonto, stazioni di servizio contornate di alberi turriti, altopiani rocciosi, lande desolate: sono i paesaggi, umani e naturali, di circa sessanta acquerelli e dipinti a olio che Edward Hopper (1882-1967) realizzò tra gli anni '10 e '60 del secolo scorso.

Dal 26 gennaio al 17 maggio la Fondation Beyeler di Basilea, in collaborazione con il Whitney Museum di New York, li raccoglie dando rilievo alle «rappresentazioni iconiche» degli scenari rurali e urbani d'America, aspetto sinora messo in secondo piano. Uno dei momenti clou della mostra è l'omaggio di Wim Wenders al suo pittore preferito con un cortometraggio in 3D, Two or Three Things I Know about Edward Hopper, che tenta di ricrearne lo «spirito americano».

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Il poeta Yves Bonnefoy, in La fotosintesi dell'essere (Abscondita, 2009), seppe descrivere il cuore essenziale dell'arte di Hopper: «La realtà stessa si cancella in quell'abisso, almeno la realtà dell'esistenza, quella che resiste solo attraverso i segni che proietta intorno a sé». Rimane, dunque, qualche brandello rosso di un'edenica dimensione perduta, di un «incomunicabile» che soprattutto le donne, sempre assenti, sempre perplesse, riescono a esprimere con la loro inane presenzialità.

Schermi vuoti, risacche di senso, interrogativi lasciati aperti lungo le dorsali di Cape Cod sembrano accompagnare la pennellata di Hopper, influenzata da Velázquez, Goya e Manet e anche dalla letteratura russa e francese. I fari luminosi, le insegne note, le verande azzurre, i graniti di Cape Ann, il celebre Second Story Sunlight (1960): tutto segnala uno scarto, un'ampia svirgolata tra realtà oggettiva e visione deformante, tra pace interiore e inquietudine esistenziale. Si pensi a Portrait of Orleans (1950), uno dei pezzi più importanti della mostra: dove conduce quell'infima strada che si perde nel grigio dell'orizzonte? E le due auto oscure? Cosa nasconde in sé la scritta «Esso» così evidente, eppure così sformata? E il semaforo verde che consente il passaggio a Nessuno? E la signora lievemente curva, forse in cammino o forse ad aspettare che un'anima esca dal negozio?

Certo è che Hopper, autore così potentemente americano, capace di passare dalla realitas della cosa alla res, divenendo un antesignano della Pop Art, è fonte d'ispirazione non soltanto per altri pittori, ma anche per i letterati. Una bella e intensa silloge del poeta pugliese Sergio D'Amaro, Still Life (FaLvision Editore, pp. 63, € 10), è modellata su «alcuni suggerimenti di Edward Hopper interpretati in 13 quadri», dando spazio in particolare allo Stilleben, natura morta traducibile più precisamente con “vita silenziosa”. Una lirica di D'Amaro, ad esempio, riscrive in versi un quadro di Cape Cod: «Sì, è già domani, un faro orgoglioso/ sulla collina delle Fivelands.// E veglia sugli stupori ritrovati/ sulle dodici strade che solcano// la silenziosa isola di Cape Cod. [...] Vele sipari bandiere ali/ altro non è questa vita quieta// altro non può questa vana mela/ questo misero pane ridotto in briciole.// Bottiglia frutta ciotola cesto/ cenere farli ancora fuoco» (È già domani).

Tra la parola e i colori nasce un dialogo pacato, un'ekphrasis intimamente sommessa, la cui forza narrativa è però in grado di stigmatizzare la staticità e il rigore dei dipinti di Hopper, cogliendo la segnatura emotiva dei personaggi. Ne viene fuori un andirivieni di racconti in versi, inchieste, fotogrammi della provincia americana senza falsi pudori, intessuti di un gergo letterario che sa toccare le corde dell'immensa solitudine descritta dal pittore. La poesia netta di D'Amaro si lega così alla cunicolare percezione visiva, al «grigio» e alla «polvere» di una «cenere spietata», all'«esile trama di echi insensati/ la ripida roccia incombente».

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